John Cage diceva che “il silenzio non esiste. C’è sempre qualcosa che produce un suono” (Silenzio, 1961).
Si potrebbe ricordare l’arcinota esperienza cagiana nella camera anecoica, il laboratorio più radicale in cui si dovrebbe percepire l’assenza di suoni. Ma John Cage racconta di aver sentito anche lì due suoni, uno grave e uno acuto, interpretati come il suono del sistema nervoso in funzione e quello della circolazione sanguigna.
Dopo quell’esperienza, sembra che John Cage abbia composto 4’33”, ossia un arco temporale preciso (quattro minuti e trentatré secondi) all’interno del quale non sono i tradizionali strumenti a suonare (infatti l’esecutore è seduto davanti al pianoforte ma non lo suona) ma la casualità della vita reale, con le sue pause o rumori improvvisi. 4’33” è semplicemente una cornice, una struttura i cui contenuti sonori sono determinati dagli astanti. Il pubblico, quindi, non è più ascoltatore passivo di suoni generati da un tradizionale strumento musicale ma ne è l’autore ed esecutore inconsapevole.
4’33” è una composizione corale e collaborativa, che critica implicitamente la sacralità del suono e l’idea romantica della ritualità e della silenziosità del concerto. Si tratta del ritorno al modo originale di eseguire/ascoltare musica, fra tradizione e improvvisazione.
Quindi, così come la definizione di rumore, la definizione di silenzio è relativa ma di solito è associata all’idea di vuoto, di purezza, di assenza di attività. Forse è più appropriato, quindi, parlare di quiete. Ma anche questa è un’esperienza relativa e lo si nota dal fatto che, pur essendo un diritto di tutti indiscriminatamente, il silenzio è spesso minato dall’onnipresenza di messaggi sonori in ogni dove: il muzak nelle sale d’attesa, nei bar, nei ristoranti, nei centri commerciali, nei mezzi di trasporto pubblici, et cetera. C’è un horror vacui che ci spaventa e lo si esorcizza riempiendolo di suoni, parole, musiche.
In “Styles of radical will” (1969), Susan Sontag ritiene che “il silenzio non smette mai di sottintendere il suo opposto e di dipendere dalla sua presenza. Proprio come non può esistere un giù senza un su (…), allo stesso modo per riconoscere il silenzio occorre riconoscere un ambiente circostante di suono e di linguaggio”.
Però, se ne sono accorti tutti che il silenzio è morto. Tanti furbetti cercano di resuscitarlo a pagamento, attraverso promesse di riconquistata quiete da parte di un sempre crescente marketing del silenzio (elettrodomestici silenziosi ma costosi, soggiorni in hotel e salus per aquam per allontanarsi dal caos cittadino, etc.).
Questo è uno degli ultimi casi che mi sembra interessante menzionare, la campagna “No Noise” di uno dei più importanti department store inglesi, Selfridges. L’assenza di rumore viene promessa sia come sosta in uno spazio fisico in cui evadere e rilassarsi dal rumore e dalla fatica del vivere urbano (e dello shopping), sia come vendita di prodotti a cui il marchio è stato o sottratto o impoverito graficamente.
Altre iniziative, invece, sono gratuite e motivate dal più sincero desiderio di divulgare la riflessione su di un diritto spesso disatteso. E’ l’International Noise Awareness Day, un minuto di silenzio per accorgersi del prima e del dopo, perché l’importante è proprio accorgersi della differenza ed è noto che ci si accorge sempre troppo tardi di ciò che si è perso.
Infine, quella mente brillante di Bruno Munari, a suo modo, ci tiene per mano accompagnandoci in una poetica esplorazione del silenzio: è la favola di Cappuccetto Bianco, non a caso dedicata anche a John Cage. Una bimba vestita di bianco cammina in un bosco innevato, senza riuscire a vedere nulla: “mai vista tanta neve”.
Per quanto il silenzio possa sembrare un’esperienza angosciante, portandoci a riempire il vuoto con riempitivi assordanti ma rassicuranti, tuttavia è un’esperienza necessaria e fisiologica, come le pause di un discorso. E soprattutto la quiete è un bene per tutti e non un lusso per pochi.