Giampaolo Capisani, milanese, è docente di Italiano e Storia presso Liceo psicopedagogico “S. Quasimodo” di Magenta. E’ tra i fondatori della rivista internazionale underground “Decoder” per la quale, con lo pseudonimo di Ulisse Spinosi, ha scritto diversi interventi. E’ specializzato in storia dell’ Unione Sovietica all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e ha tenuto corsi e seminari a Milano e a Parigi. Ha curato l’edizione di diversi volumi di geografia economica di editoria scolastica per l’Istituto Geografico De Agostini (Novara) oltre alle voci dei nuovi paesi formatisi tra il 1990 e il 1999 de “ Il grande atlante economico politico-sociale” per Peruzzo Editore (Milano). Con il nome di penna di Leo Mantovani, è articolista del settimanale finanziario “Borsa e Finanza” e di “Affari e Finanza” (supplemento economico al quotidiano La Repubblica) su temi riguardanti i mercati emergenti, le materie prime (petrolio, idrocarburi, metalli preziosi, diamanti, etc.) e i relativi equilibri geopolitici. Suoi interventi sono comparsi anche in “Linea d’ombra”; “Giano.Pace-ambiente-problemi globali”; “Guerre & Pace”; “Lyon Mag’”. Nel 2000 ha assunto la direzione della collana editoriale “a-change” che ha esordito pubblicando il saggio di Michael Hardt, “Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia”.
In che contesto musicale hai vissuto la tua adolescenza a Milano?
C’era un periodo a Milano, intorno agli anni ’70, in cui i semafori diventavano intermittenti verso le 8 di sera: il flusso di persone era piuttosto rado ed era costituito prevalentemente da militanti politici, come me e i miei amici, e da cani sciolti.
I locali aperti, e che frequentavo, erano pochi: “Stalingrado”, “Operetta”, “Il punto rosso” e qualcun altro che apriva ma chiudeva dopo pochi mesi. Il grosso afflusso, invece, avveniva nel corso delle riunioni politiche, di pomeriggio o di sera: non a caso l’idea di Radio Popolare nacque per coordinare quelle riunioni, coinvolgendo le persone attraverso la musica.
Milano era una piazza molto difficile per i concerti, perché venivano sempre contestati: da Santana a De Gregori, Frank Zappa, Joan Baez, John Cage… Il concerto non era un luogo di aggregazione: ci si andava per contestare il cosiddetto “Muzak”.
L’evento importante di quegli anni, per quanto riguarda la musica, fu quello organizzato al Parco Lambro nel 1976 a cui parteciparono artisti che non conoscevamo e che quindi non potevamo contestare! Il concerto era stato organizzato da noi, ossia da un grande gruppo che coinvolgeva Lotta Continua, PdUP e Autonomia Operaia. Fu un evento grande e partecipato, diverso dai concerti ufficiali che di solito erano organizzati da David Zard, impresario musicale.
Le riviste musicali più diffuse a Milano erano quattro: “Ciao 2001” che era fortemente istituzionale, “Gong” dal taglio underground, “Muzak” che era molto severa nei confronti della musica commerciale e, più tardi, “Musica 80”. Personalmente leggevo soprattutto riviste politiche. C’era un giornale, “Rosso”, che era nato come rivista underground e aveva come animatori, tra gli altri, Jacopo Fo e Marco Barbone. Il giornale, di solito, come impostazione editoriale, conduceva una grossa critica al Re Nudo, alla famiglia e alle istituzioni, ma anche alla morale corrente e al lavoro con le sue contraddizioni. Gli argomenti musicali venivano affrontati con commenti e schede critiche. In seguito “Rosso” è cambiato ed è diventato il giornale politico dell’Autonomia Operaia milanese, occupandosi marginalmente di musica con gli interventi di “Mingus”, che si occupava di jazz.
Che musica ascoltavi e attraverso quali canali te ne fornivi?
Prima dell’avvento delle radio, io ascoltavo musica molto selezionata, di solito rock e progressive: Area, Frank Zappa, etc. Con le radio l’offerta ovviamente si allargò, soprattutto presentando i nuovi cantautori.
A Milano, solo per citare la prima radio esemplificativa, c’era Canale 96, che aveva raccolto Radio Popolare. I cantautori milanesi più ascoltati erano Claudio Rocchi, Eugenio Finardi e pochi altri: erano molto seguiti anche perché esprimevano bene lo stato d’animo del movimento politico di cui facevo parte. Io, però, preferivo i cantautori bolognesi ossia Francesco Guccini e Claudio Lolli.
Per quanto riguarda i canali di diffusione della musica, oltre alle radio, c’erano le musicassette duplicate che ci scambiavamo tra amici. Io non ho mai avuto l’impianto stereo completo però chi lo aveva riusciva a registrare dal disco alle cassette, che poi distribuiva a scuola, creando una vera e propria catena distributiva oltre che condivisione di sapere.
I negozi, ovviamente, erano importanti per conoscere e acquistare le novità: di solito si andava da “Catù” in via Torino, bandiera del punk, “Rasputin” in piazza Cinque Giornate e “Mariposa” a Porta Romana. C’erano anche molti piccoli negozi, generalmente poco forniti, che però erano i punti di riferimento dei singoli quartieri.Tra di noi ascoltavamo Genesis, Pink Floyd, Gentle Giant, Emerson Lake & Palmer, Frank Zappa, Led Zeppelin, Neil Youg, i cantautori italiani citati prima, Grateful Dead, Jefferson Airplane, etc. ma sempre in una dinamica di apertura e di non ghettizzazione, nel senso che alle feste che organizzavamo si poteva ascoltare “La locomotiva” di Guccini alternata a “Another brick in the wall” o “Somebody to love ” dei Jefferson Airplane.
Prima parlavi di contestazioni: mi vengono in mente quelle in occasione della prima al “Teatro alla Scala” , tempio della musica istituzionale, e quella a John Cage al Teatro Lirico il 2 dicembre 1977 per “Empty Words”. Perchè proprio a John Cage che è l’anti-Scala per antonomasia?
Nei confronti della Scala c’era un’ organizzazione corale di tutto il movimento, soprattutto basata sulla rivendicazione del diritto di tutti alla musica classica e la contestazione aveva, evidentemente, delle motivazioni economiche e politiche.
John Cage, invece, veniva criticato perché ritenuto eccessivamente cerebrale, non comprensibile, d’élite. In effetti si assisteva ad una spaccatura perché da un lato c’erano coloro i quali difendevano Cage perché si trattava di musica d’avanguardia, dall’altro c’erano gruppi più realisti e materialisti che proprio non lo capivano.
Ci furono anche altre contestazioni come quella a Santana, al Vigorelli, che era criticato perché troppo commerciale; a Frank Zappa che fu contestato più che altro per sabotare chi aveva organizzato il concerto; a De Gregori, che comunque ascoltavamo, ma che veniva accusato di essere eccessivamente intimista e poco politico.
In quel periodo c’erano un po’ di contraddizioni. Per esempio, nei circoli giovanili c’era stata una battaglia tra una componente popolare acquisita, che voleva trasformare i centri sociali in discoteche per approcciare le ragazze e che, quindi, ascoltava Barry White, Donna Summer, etc. e noi che, invece, avevamo preso posizione contro la musica disco, perché la consideravamo commerciale, e ballavamo solo tarantelle e tamurriate.
Pensa quindi a questi due gruppi: i giovani politici ballavano le musiche popolari e i coetanei non politicizzati ballavano la disco music. Questa era la dinamica che si viveva nel circolo giovanile che frequentavo io a Gallaratese ma che era comune a tutti i circoli della città: si voleva attirare persone, per questo si optava per la disco music.
Durante le manifestazioni politiche, si cantavano canti di lotta?
Sì, ma una volta le manifestazioni erano molto diverse da quelle di adesso. Un tempo, tutti i giovani militanti imparavano e cantavano alcune precise canzoni, circa una decina, come ad esempio l’“Internazionale”, la “Ballata del Pinelli”, “Contessa”che mi impressionava perché è un po’ estrema: qualcuno cantava De Andrè, qualcun altro Jannacci, altri “Pugni chiusi” o “Ragazzo mio“, che facevano già parte della musica leggera. Noi eravamo più politici e io, per la mia scuola di pensiero, cantavo la “Varsovienne”, tradotta da Potere Operaio, che era una versione alternativa della Marsigliese: “stato e padroni, fate attenzione, nasce il partito dell’insurrezione“.
Che funzione avevano i canti di lotta in quelle circostanze?
Direi che cantare insieme durante i cortei avesse la funzione di aggregare, accomunare e condividere: “è la guardia rossa che marcia alla riscossa“. Mi vengono in mente i capi cori dello stadio: c’era una forma aggregativa molto emotiva, che ci teneva insieme. Certo, manifestavamo, ad esempio, in solidarietà per lo sciopero dei metalmeccanici, ma è anche chiaro che quelle canzoni non facevano parte del background dello sciopero dei metalmeccanici ma del nostro.
Tra l’altro, ogni gruppo aveva i suoi canti: noi, ex Potere Operaio, avevamo il nostro, il Movimento Studentesco aveva l’“Internazionale”, Lotta Continua aveva il suo “Inno” di Pino Masi. Ognuno, quando arrivava nel corteo, cantava le sue canzoni e si capiva, dai canti, chi si stava avvicinando.
Nel libro di S. Baroni e N. Ticozzi, “Disco Music. Guida ragionata ai piaceri del sabato sera” (1979) vengono riportati alcuni commenti di Radio Popolare sulla disco music: “Siamo dialettici, aperti e possibilisti per molte cose, addirittura pluralisti sulla visione del mondo, certe volte, di vedute larghe e larghissime anche in campo culturale, ma la Disco Music proprio non la digeriamo: già le copertine danno una punta di malore, il vinile diventa subito materiale a cui ci sentiamo refrattari e ci rende scostanti. Inutile insistere…” (pag. 62).
E’ vero, la disco music non apparteneva al territorio di Radio Popolare. Tra l’altro, ad un certo punto, dopo il film “La febbre del sabato sera”, le discoteche iniziarono a non avere più il grande successo che avevano prima e i gestori più intelligenti capirono che bisognava iniziare a proporre un mercoledì rock. Questo fu il caso dell’ “Odissea 2001” e di altre discoteche. Anche oggi, le discoteche che sono rimaste attive propongono più offerte musicali in giorni o piste da ballo differenti. Questo fenomeno sta a sottolineare che, appunto, nei primi anni ’80 il modello dominante della disco music si stava iniziando ad incrinare.
Milano è anche la città in cui hanno sede le grandi case discografiche: che rapporto c’era con loro?
Ovviamente nessuno, tuttavia ci fu un tentativo di rompere questo monopolio: era la Cramps Records, che pubblicava gli Area, John Cage e musica non mainstream. Un altro grande editore, che a latere aveva anche una piccola casa di produzione che promuoveva i giovani, era Sugar Music.
Tra i miei amici, qualcuno aveva un complesso musicale: prima dei centri sociali, si suonava nei box e generalmente cover. Ricordo un gruppo che suonava una musica a metà tra funky, melodico e jazz e si chiamava “Civiltà mediterranea”: i componenti della band abitavano nel quartiere Gallaratese, che frequentavo,e spesso li ascoltavo lì perché erano il gruppo di riferimento della mia zona. Poi mi sono spostato al Circolo Giovanile Antifascista Gallaratese “Via Lampugnano 142”.
In seguito, negli anni ’80, si diffuse la pratica dell’autoproduzione da parte delle prime band punk, nel senso che si autoregistravano e diffondevano le cassette, senza mediatori.
La fine degli anni ’70 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti testimonia la diffusione della musica e del movimento punk. Cosa succedeva a Milano?
Il punk ha avuto un grosso sviluppo a Milano, soprattutto quando nel 1979 il movimento politico aveva iniziato ad offuscarsi. Alcuni erano andati a Londra ed avevano iniziato a familiarizzare con l’area politica e culturale londinese portando, una volta rientrati a Milano, gli schemi del punk sia in termini musicali sia estetici, ossia nel modo di vestirsi (di quel periodo sono i primi negozi punk milanesi). Il luogo dove avvenne l’elaborazione del movimento punk era la Casa Occupata di via Correggio: ricordo che ci fu un grosso dibattito, se cantare in inglese oppure no, perché alcuni iniziavano a rivendicare un punk italiano anche nella lingua. Ma questo riguardava una generazione successiva alla mia, quindi io non ero particolarmente coinvolto.
Milano com’era: il Vicolo dei Lavandai. Credit: qui.
Negli anni ’70 si assiste ad un interesse nei confronti della musica e delle tradizioni popolari: pensiamo, ad esempio, all’Istituto De Martino fondato nel 1966. Qual era il rapporto di Milano con la tradizione, dal punto di vista musicale?
Qui a Milano c’era la tradizione delle osterie dei Navigli, in cui si suonavano le canzoni popolari, di lotta o legate alla malavita. Oggi, come sai, i Navigli sono stati gentrificati ma, quando io ero giovane, era una zona molto popolare, costellata da osterie dove si mangiava e si beveva con poco, c’erano spesso atmosfere fumose, molte persone, i vecchietti che giocavano a carte, si suonava e si cantava le canzoni della tradizione milanese e delle aree limitrofe. Un’osteria si chiamava “Il Brumista”, tra quelle che ricordo.
Oggi, ovviamente, non c’è più. Come ti dicevo all’inizio, i locali aperti in città erano pochi però c’era un’altra area, oltre ai Navigli, dove si andava ad ascoltare musica: era Brera, anche se lì si suonava una musica più legata al virtuosismo, soprattutto jazz. Io e i miei amici non frequentavamo quella zona perché ci andavano soprattutto i rampolli della Milano bene.
Quindi possiamo dire che Milano era divisa in zone, dal punto di vista dell’offerta di intrattenimento?
Sì, non c’era solo una divisione in zone ma anche in generazioni. Il Naviglio era popolare, abitato da persone nate a Milano che poi hanno subito la grande ondata migratoria dei meridionali, che erano andati ad abitare lì perché le case di ringhiera costavano poco. Nelle osterie si trovavano, come dicevo prima, ceti popolari che cantavano le canzoni della tradizione milanese e lombarda in generale. Ortica e Lambrate erano altre zone che assomigliavano ai Navigli nelle dinamiche di cui parlavo prima.
Torniamo alla presenza meridionale ai Navigli, in quegli anni. Spesso, per i migranti, parlare la propria lingua o il dialetto e ascoltare la musica dei propri territori d’origine è un modo, stando lontani, di sentirsi a casa. Ti è mai capitato di percepirlo a Milano?
Sì, certo. Quando si passava da via Vigevano, che era abitata in gran parte da operai dell’Alfa Romeo di provenienza meridionale, si sentiva provenire dalle case canzoni napoletane, romane, etc. Anche questo era un modo per designare l’area dei Navigli come zona popolare. Tuttavia i meridionali non avevano, che io sappia, un locale dove incontrarsi e ascoltare (e magari ballare) le musiche della loro tradizione; lo potevano fare solo in casa.
Nel 1979 esce sul mercato il Walkman prodotto dalla Sony. In una città come Milano, che sicuramente all’epoca era la città più aggiornata in Italia, vedevi giovani che camminavano con le cuffie?
A Milano il Walkman ha impiegato molto tempo per affermarsi. D’altra parte, all’epoca, le tecnologie erano molto costose. Io mi ricordo che il primo Betamax della Sony costava una fortuna. Il Walkman era un lusso, quindi i tempi di entrata nell’uso popolare furono molto lunghi, nell’ordine di 7-8 anni perché si diffondesse un po’ come oggi il lettore Mp3 portatile.
Quindi, essendo il Walkman piuttosto raro, rappresentava anche uno status symbol e il segno di appartenenza ad una classe sociale agiata.
Sì, non era come adesso. Anche l’iPod, quando è stato immesso sul mercato americano nel 2001, non aveva costi improponibili. Oggi quasi tutti camminano indossando le cuffie; a quei tempi a me a Milano, in un giorno intero, capitava di vedere al massimo una o due persone camminare con il Walkman.
Arriviamo agli anni ’80: c’è un film intitolato “Decoder” che contestava la musica commerciale, meglio nota come Muzak, oggetto delle contestazioni di cui parlavi prima. Tu sei stato uno dei fondatori della rivista “Decoder“: vuoi raccontarci quella esperienza?
Per quanto riguarda la storia della rivista, posso dirti che noi che l’abbiamo fondata avevamo vissuto una stagione che aveva messo fine a delle grandi speranze. Dopo il 1979, ci sentivamo come sulle montagne russe in discesa: pensavamo che ci fossero grandi novità ad aspettarci ma invece succedeva che alcuni amici morivano di eroina e molti, compreso me, iniziarono a rifugiarsi nella famiglia, nello studio o nel successo personale.
In questa dimensione alquanto scoraggiante, ci trovammo una sera con due protagonisti del punk milanese, che nel frattempo si era esaurito, ovvero Gomma e Valvola. Loro erano persone con una storia molto diversa dalla mia: avendo fatto parte del movimento punk, avevano un’indole più trasversale della mia, avevano conosciuto Primo Moroni e curato la libreria Calusca, io invece ero più “politico”.
Così, anche assieme ad un mio compagno di scuola che era stato attivo in Avanguardia Operaia, abbiamo deciso di porci il problema di creare una rivista underground che, fuori dalle logiche ideologiche dei giornali disponibili a quel tempo, riuscisse ad affrontare i grandi nodi che stavano iniziando a presentarsi, primo fra tutti, le innovazioni tecnologiche.
Senza scomodare i grandi pensatori, avevamo capito che la tecnologia avrebbe potuto cambiare la vita delle persone: è stata un’intuizione di trent’anni fa ma accade oggi! Per quanto fosse molto eclettico e si occupasse di tanti argomenti che andavano dalle posizioni politiche, all’analisi delle droghe, ai fumetti, Decoder già anticipava aspetti neo-luddisti o comunque preoccupanti: pensiamo ad Orwell, ad esempio.
Presto iniziammo ad aggredire il nodo BBS (Bullettin Board System), perché avevamo capito che le BBS sarebbero state uno dei vettori di distribuzione successivi. Abbiamo affrontato anche argomenti musicali, soprattutto presentando gruppi di avanguardia ma, come dicevo prima, gli argomenti erano davvero tanti: si andava dall’intervista alle telefoniste hard, alla poesia, ai fumetti antiproibizionisti.
L’importante era tenere insieme tutti questi pezzi cercando un nuovo livello che non fosse quello stantio e già schierato delle riviste che si pubblicavano all’epoca: noi volevamo uscire dalla prevedibilità di quelle riviste, proponendo qualcosa di nuovo.
Ci eravamo accorti del potenziale pericolo latente nelle tecnologie e avevamo iniziato ad assecondare gli ethic frontier americani che, tuttavia, mantenevano posizioni liberali e con le nostre storie di militanza non avevano nulla da spartire. Gomma era punk, Valvola era libertario e io ero un post-comunista: a parte le nostre diverse provenienze, avevamo visto i rischi insiti nelle nuove tecnologie e mi sembra che oggi siano diventati reali e concreti (tracciabilità del GPS, telefono cellulare, bancomat, etc.).
Francamente, avrei sperato che almeno le istanze successive avessero preso in mano il testimone ma così non è stato: tranne varie individualità che hanno posto il problema, mi sarei aspettato un movimento più collettivo. Forse oggi siamo siamo in un momento in cui le soggettività emergono e il collettivo non ha più la forza propulsiva di un tempo.
Decoder ha significato questo: è stato un segnale di pericoli possibili e di potenziali opportunità: sarebbe potuto essere un momento importante per tutti, legato ai beni e ai saperi comuni ma mi sembra che invece ci sia stata una virata verso il piano del controllo e questo mi preoccupa e mi rattrista molto.