Antonio L. Palmisano ha lavorato come ricercatore e docente presso numerose Università italiane e straniere (Berlin, Leuven, Addis Abeba, Göttingen, Roma, Torino, Trieste) e svolto pluriennali ricerche sul terreno in Europa, Africa dell’Est e Asia Centrale. In Europa è stato incaricato dal 1990 al 1992 al progetto internazionale “Foundations of a New European Legal Order”, presso il Centre for the Study of the Foundations of Law, Katholieke Universiteit, Leuven. In Ethiopia, presso l’Università di Addis Ababa, si è occupato di ricercare sui processi politici di manipolazione delle reti sociali nei processi di soluzione dei conflitti, analizzando dal 1992 al 1997 il diritto consuetudinario tribale in relazione al diritto statuale federale. In Afghanistan, in qualità di Senior Advisor for Judicial Reform, ha lavorato con la Judicial Reform Commission dal 2002 al 2004. Insieme a questa e altre istituzioni internazionali (Kabul University, Unicef, Who) ha diretto ricerche estensive sulle forme alternative di soluzione dei conflitti e sulla struttura e organizzazione della giustizia informale in Asia. Ha condotto infine survey researches sulla relazione fra diritto consuetudinario, diritto informale, e diritto statuale in Ecuador, Paraguay, Guatemala, Argentina e Cuba, elaborando una analisi critica della relazione fra sistemi giuridici, ordine sociale e ordine dei mercati. Palmisano intende il fieldwork come stile di vita. Tra le sue pubblicazioni,”I Guraghe dell’Etiopia“ (Pensa editore, Lecce, 2008), “Mito e Società. Analisi della mitologia dei Lotuho del Sudan“ (Franco Angeli, Milano, 1989) e numerosi articoli e curatele. Attualmente Palmisano è professore associato presso l’Università del Salento e direttore della rivista “Dada. Rivista di Antropologia post-globale“.
Molti miti cosmogonici pongono la parola o, più in generale, il suono al centro della creazione dell’universo. Perché? Ci sono culture che attribuscono più attenzione al suono rispetto ad altre? Nell’elaborazione del mito, c’è un legame con la pratica della vita quotidiana e, quindi, con la storia?
E’ una domanda molto complessa perché si riferisce alle origini di tutto: è vero, per molte società ci fu il suono al centro della creazione dell’universo.
Non credo che si possa dare una spiegazione comprensiva del perché di questa scelta, ma possiamo sforzarci di comprendere attraverso ragionamenti a posteriori. E’ noto in fisica che la materia produca vibrazioni e, essendo il suono vibrazione, tutto è suono ma, come mai alcune società hanno elaborato una teoria cosmologica o cosmogonica del suono e altre no? Perché, quindi, alcune società hanno dato più importanza non al suono in se stesso ma al suono all’interno di una visione del mondo, ossia di una teoria dell’universo? In tutte le società ci sono musica e canto, non credo che ci siano eccezioni: in base alla mia esperienza diretta, non conosco società in cui non sia presente, ad esempio, almeno il canto.
Sappiamo ciò che dice la Bibbia: “all’inizio ci fu la parola”, secondo il Vangelo di Giovanni; all’inizio della Genesi e nell’Apocalisse, le trombe giocano un ruolo determinante perché tutto inizia e finisce con un suono clamoroso; Mosè viene svegliato dai suoni; nell’Esodo viene presentato il shofar, ossia uno strumento derivato dal corno di un ariete. Il suono è associato a momenti fondamentali nella Bibbia: c’è una sorta di “cesura sonora” in tutti i passaggi più importanti.
“All’inizio c’è la parola”: la parola è un suono? Forse il logos era altro rispetto alla pura parola o al suono in sé. Nel Corpus hermeticum il logos non è la parola pronunciata ma è una sorta di pensiero vivente.
Ci sono culture che attribuiscono più attenzione al suono rispetto ad altre: ricordo che Jacob Taubes, uno dei miei maestri, parlava di una grande distinzione, a suo avviso, tra la cultura greca e quella giudaica secondo cui la prima era una cultura della vista e la seconda privilegiava l’udito e, quindi, la capacità di intendere il suono, ovviamente inteso come parola di Dio. Si tratta di una dicotomia forte che aiuta a comprendere l’elaborazione di due etiche ed estetiche diverse, quella greca e quella ebraica. In alcuni antichi miti greci, i miti pelasgici della creazione, che sono riportati da Robert Graves, uno dei massimi studiosi di mitologia greca, la creazione viene rappresentata come espressione della danza di una Dea di Tutte le Cose che, emersa nuda dal Caos, da sola ballò: quindi, si presume che ci fosse un canto o una musica di sottofondo per sottolineare quei movimenti. Tuttavia, il suono cosmogonico appartiene più alla tradizione mediorientale, ebraica ed egiziana che non greca: ad esempio il Dio Thot, con il battito di mani e 7 fragorose risate, quindi con un suono non-suono, completò la creazione dell’universo.
In merito alla relazione tra mito e vita quotidiana, non c’è sempre un legame: anzi, il mito va al di là della storia e la trascende. Secondo la teoria classica che supporta quell’ambito disciplinare che si occupa di studiare il mito, la Mythenforschung, c’è un rapporto tra il mito e la vita quotidiana nel senso che c’è un legame tra mito e rituale. Non conosciamo molti miti senza rituali e, soprattutto, non conosciamo rituali che non siano appoggiati a miti. Tuttavia, le liturgie e i rituali possono anche scomparire ma rimangono i frammenti mitici a riprova di una constatazione: attraverso il mito, è immenso il piacere del raccontare ed è straordinaria la capacità di meravigliare e di affascinare l’ascoltatore, proprio perché ci troviamo in assenza di un discorso logico-speculativo. Questa riflessione, che già ritrovi nel mio Mito e società del 1989, è molto importante perché ci può condurre a ripensare il suono secondo altri aspetti: il suono rappresenta una modalità di evasione dal discorso logico-speculativo ed è l’espressione di un‘altra modalità comunicativa. Poste queste premesse, possiamo osservare sotto una nuova luce la questione che mi ponevi all’inizio, cioè perché alcune società abbiano attribuito una notevole importanza all’evento sonoro e, soprattutto, abbiano cercato di comprendere, attraverso il suono, un rapporto con ciò che è oltre l’umano nella spiegazione della nascita dell’universo (la voce di Dio, sentire le parole sussurrate dal vento, etc.): il suono riesce a soddisfare, in parte, questa forte volontà di comunicazione con ciò che è oltre l’umano, proprio perché esso rappresenta un’occasione di prestazione di senso e di elaborazione di un universo emotivo, in virtù dell’assenza di un significato in termini logico-speculativi.
In “Com’è musicale l’uomo”, John Blacking afferma che “i Venda mi hanno insegnato che la musica non può mai essere una cosa a sé stante e che tutta la musica è musica popolare, nel senso che non può essere trasmessa o avere un significato al di fuori di rapporti sociali”. Cosa ne pensi?
Non sono d’accordo con l’ultima parte dell’affermazione di Blacking, secondo cui “tutta la musica è musica popolare, nel senso che non può essere trasmessa o avere un significato al di fuori di rapporti sociali”. La musica può essere trasmessa comunque, anche senza avere quel significato all’interno di quei rapporti sociali, proprio perché a mio avviso non è necessario che quel preciso significato sia mantenuto. Pensiamo alla musica rap: all’interno dell’ambiente dei rapper americani essa ha un significato molto preciso che, ad esempio, qui in Italia non viene mantenuto; ma ne assume altri. Si tratta di un processo di attribuzione di significati e di prestazione di senso a eventi sonori che, sfuggendo il significato logico-speculativo, si prestano a notevoli interpretazioni di cui ogni soggetto può appropriarsi al meglio per fare suo l’evento sonoro.
Tra musica e società c’è indubbiamente un legame, ma dal punto di vista dell’interpretazione che si opera coralmente per costruire un senso a ciò che si sta sentendo o che viene prodotto come suono. Io riscriverei la frase così: “la musica non può mai essere una cosa a sé stante e tutta la musica è musica popolare”, nel senso che non può essere trasmessa con quel significato che le era stato attribuito dal suo creatore.
Quali sono, nell’uomo, gli impulsi determinanti per la nascita di pratiche musicali? Che funzione hanno la musica e il suono nella vita umana?
Per rispondere, vorrei ricollegarmi al discorso affrontato prima.
La musica nasce come espressione dell’analogico. Il linguaggio verbale, invece, segue schemi logico-speculativi come il principio di non contraddizione, il principio di identità, tertium non datur, ecc. La musica, a meno che non venga costruita razionalmente, permette un superamento del discorso logico-speculativo, nel senso che raggiunge la nostra mente in maniera diversa rispetto alla costruzione soggetto-predicato-oggetto, proprio perché suscita emozioni che non possono essere evocate dalla descrizione in termini razionali, a meno che non ci si riferisca alla poesia e a linguaggi che rompono con la logica: questo è il motivo del suo grande successo. La musica è un tentativo di sentire ciò che è oltre la nostra percettibilità immediata, anche perché è il soggetto stesso che le attribuisce il significato: per questo motivo, a mio avviso, suono o musica rappresentano una grande occasione. Infatti, in base all’interpretazione che ne viene data, la musica può assumere funzioni diverse: per esempio può servire nella costruzione dell’identità, favorire processi di evasione, di iperstimolazione o forme di stati modificati di coscienza.
In merito alla creazione degli strumenti musicali tradizionali, alcuni ritengono che le loro caratteristiche dipendano dalla disponibilità locale dei materiali (zucche, semi, etc.). David Byrne in “Come funziona la musica” ritiene che “gli strumenti siano stati attentamente plasmati, scelti, adattati e suonati per conformarsi nel modo migliore al contesto fisico, acustico e sociale. La musica si adegua perfettamente al luogo in cui viene ascoltata, tanto dal punto di vista acustico che strutturale”. Cosa ne pensi? Qual è il rapporto tra testo e contesto nelle pratiche musicali?
Non mi convince questa analisi perché è una spiegazione funzional-razionalista fin troppo dogmatica; tra l’altro, Byrne dimentica la straordinaria capacità di diffusione che ha lo strumento in sé: pensa alla chitarra che puoi portare dovunque. Pensiamo al darbuka, tamburo originario forse della Tunisia ma più probabilmente dell’India, passato in Iran e finito nel mondo arabo: è diffuso dappertutto! E non succede solo oggi, ma anche nell’antichità. E’ ovvio che si trova il modo per estrarre il suono dai materiali che si hanno intorno, ma non vedo l’obbligatorietà di cui parla Byrne nel conformarsi al contesto fisico.
Mi viene in mente un filmato tedesco, Wem gehoert das Lied ?, il cui titolo, tradotto in italiano, è “A chi appartiene questa canzone?”: il film ruota attorno a un motivo musicale popolarissimo nei Balcani e in buona parte dell’Asia centrale. Ogni gruppo che lo suona o lo canta, ha il suo testo ed è convinto che quella musica sia la quintessenza della propria identità etnica: persino gruppi che combattono tra di loro da secoli hanno scelto quel tema musicale facendolo proprio ma ognuno è convinto che sia la sua musica e l’espressione della propria identità, anche se in realtà si tratta della stessa canzone. Quindi, ricollegandomi all’affermazione di Byrne, secondo cui “la musica si adegua perfettamente al luogo in cui viene ascoltata”, io proverei a dire che invece è l’uomo che adegua perfettamente la musica al luogo in cui viene ascoltata facendola sua, così come il mito o il racconto favolistico. Certo, si può studiare l’origine e il punto di partenza di un mito o di un racconto ma è vero quello che diceva Hermann Baumann, un grande studioso di miti tedesco: il mito ha una forza di diffusione straordinaria e lo stesso vale per la musica proprio perché essa, così come il racconto mitologico, si basa su di un discorso analogico e, come tale, ha la possibilità di essere presa, trasformata in qualcosa di proprio e re-inviata agli altri della stessa comunità oppure passata ulteriormente ad altro luogo, con continue interpretazioni, reinterpretazioni, formulazioni e riformulazioni. Ci sono nel mondo motivi musicali che chissà che origini hanno e a quando risalgono: penso ad esempio alla musica per la tarantella, che assomiglia molto agli scazonte come tipo di verso.
A partire dal Romanticismo, molti compositori (Chopin, Smetana, la Scuola Russa, etc.) hanno iniziato a inserire, all’interno della struttura compositiva classica, musiche appartenenti alla tradizione popolare. A fine Ottocento, sulla scia dei primi studi etnomusicologici, compositori come Zoltan Kodali o Bela Bartok hanno reso ancor più radicali queste pratiche. Oggi, qual è la funzione dell’antropologia musicale sia nell’ottica delle pratiche compositive, quindi eminentemente legate all’estetica, sia per la comprensione della relazione tra uomo e musica?
L’etnomusicologia è una disciplina molto affascinante. Spesso l’antropologia musicale è stata ridotta ad una mera raccolta di ciò che si ritiene possa scomparire: certo, ha un senso creare archivi della memoria ma, tornando al discorso di prima, il mito è in continuo divenire e non c’è mai una sola versione ma, anzi, ce ne sono migliaia che, ad un certo punto, si modificano tanto da non sembrare le semplici versioni di uno stesso mito ma, invece, nuovi miti. Lo stesso vale per il tessuto musicale proprio perché esso, preso e ripreso, diventa sempre nuovo.
E’ bene raccogliere e registrare. Tuttavia, la riflessione da fare è la seguente: se si raccoglie e non si mette in relazione una precisa musica agli attori sociali che l’hanno prodotta, gestita e goduta nel momento in cui la creavano, forse si perde molto del senso di quella canzone o pratica musicale: pertanto, qualsiasi documentazione va integrata da una descrizione del contesto; ciò non toglie che quella musica possa sussistere anche senza quel contesto, trasformandosi in altro, in ambito diverso.
Tuttavia, uno degli obiettivi dell’etnomusicologia è quello di mettere in relazione la musica alla sua società: ciò non è necessario per l’esistenza della musica in sé, ma lo è per la comprensione della società e del fenomeno sonoro a cui è relazionata. L’etnomusicologia e l’antropologia della musica vogliono porsi anche altre questioni come ad esempio il rapporto tra uomo e suono, in relazione allo studio delle dinamiche percettive: ovviamente l’udito gioca un ruolo molto forte, ma il suono e la musica possono essere percepiti anche attraverso la pelle e, quindi, per via tattile, come i non udenti dimostrano. Suono e musica sono una parte molto importante del nostro mondo emotivo esperienziale: non a caso la musica può essere adoperata anche come forma di tortura, attraverso la deprivazione sensoriale o l’esatto opposto; i casi sono molteplici, dai membri dell’Armata Rossa che vennero catturati in Germania ai prigionieri di Guantanamo.
L’antropologo Steven Feld, che ha vissuto tra i Kaluli di Bosavi nel Grande Altopiano Papuasico, mostra come “il laghetto è la melodia in movimento e la cascata il testo combinato alla melodia per creare un canto. I Kaluli compongono i loro canti vicino a ruscelli o cascate, cantando con e verso di loro”. Di conseguenza, i canti sono emergenze che derivano dal paesaggio sonoro con cui si accordano ed entrano in relazione, metabolizzandolo e non semplicemente imitandolo. In base alle tue esperienze sul campo, hai notato presso altri popoli questo modo di creare musica?
L’esempio di Steven Feld dà forza alle mie osservazioni iniziali, perché conferma quanto il suono sia una forma di comunicazione analogica con ciò che è oltre l’uomo o altro dall’uomo. Si tratta di una forma di comunicazione con l’alterità: i Kaluli vogliono comunicare con la cascata, con il laghetto o con gli animali. Ad esempio, i Nuer, i Lotuko del Sudan o diversi gruppi etnici di pastori in Etiopia inventano musiche e canzoni da cantare ai vitelli e sono convinti che il vitello prediletto gradisca in modo particolare una voce, ancor di più se è articolata in forma di canto, accompagnata da una musica dedicata a lui. Il canto per il vitello ha un testo perché si tratta di una vera e propria canzone d’amore (sei dolce, che bello il colore del tuo manto, ecc.), la musica è molto melodica ed è suonata con strumenti a corde e non solo a fiato (Nuer e Lotuko): è una canzone gradevole e il vitello sembra ascoltarla con piacere.
La musica o il suono organizzato è una forma di comunicazione: se si pensa che il linguaggio usuale e comune, quello logico-speculativo, non sia sufficiente a comunicare il proprio sentimento, pensiero o emotività, è legittimo credere che anche l’emotività dell’altro non possa essere comunicata con lo stesso linguaggio razionale; perciò si ricorre al suono, al canto, alla musica. Sembra che perfino le piante comunichino: presso i Guraghe dell’Etiopia c’è una pianta chiamata ensete (della stessa famiglia dei banani); alcune donne Guraghe ritengono che la pianta al suo interno abbia una sorta di anima (muttetiniye), ossia una foglia che sta per nascere, che vibra e comunica: come fare per capirsi? Sicuramente non a parole ma facendo ricorso ad altro, ovvero ad un linguaggio diverso e analogico: quello musicale.
Anche le divinità comunicano in questo modo: come fa Dio a comunicare con l’uomo? L’uomo ha difficoltà a comprendere i linguaggi della divinità e sono note le performance rituali in cui vi è la presenza di un uomo che diventa il luogo in cui può rivelarsi la divinità. Quando la divinità trova spazio in terra, nel corpo di questo essere umano, inizia, attraverso di esso, ad emettere un suono indistinto che successivamente si trasforma in un suono articolato; in seguito, il suono diventa più articolato e musicale, per tradursi in un insieme di parole o fonemi, quasi un canto, non intellegibile. Piano piano, il suono continua ad articolarsi in una serie di fonemi, ossia un linguaggio ancora incomprensibile ma che viene tradotto, da uno specialista, in un linguaggio umano. C’è, quindi, un complesso passaggio dal silenzio ad un suono, ad uno più articolato, ad uno musicale, ad un quasi canto incomprensibile perché ancora troppo divino e, finalmente, con l’aiuto di qualcuno, ad un linguaggio immediatamente comprensibile dall’uomo. Questa pratica è presente in molte società: è la metafora di un percorso dal silenzio alla parola rivelatrice, passando attraverso quello che chiamiamo musica e che costituisce il momento chiave.
I canti e le musiche sono legati a tutti i momenti importanti della vita di un individuo: pensiamo ai momenti di seclusione, ossia quelli che precedono la notifica del passaggio di status avvenuto, in cui l’individuo viene portato fisicamente fuori dalla società, relegato in uno spazio isolato, in cui vive un’ esperienza particolare o con il silenzio o con la iperstimolazione sonora. Per esempio, era noto, nell’iniziazione dei nativi del Nord America, un lungo isolamento nell’assoluto silenzio della foresta: si trattava di una forma di quiete rispetto ai suoni umani, anche se i suoni c’erano ed erano quelli del silvaticum extra sociale, percepiti dal giovane iniziato alla classe dei guerrieri – dopo sette giorni e sette notti di isolamento e veglia – come delle allucinazioni sonore, come parole dette da uno spirito, da un antenato o da un’entità non umana, come messaggi riguardanti il suo destino, la sua funzione, la sua identità. Dunque, in questi processi iniziatici il suono, per assenza o per eccesso, gioca un ruolo determinante perché si trasforma in allucinazione sonora e quindi si rende più disponibile a processi interpretativi di una comunicazione presunta o tale. Presso i Lotuko, che tanti anni fa ho studiato, di solito si praticava una forma di iperstimolazione sonora, nel senso che al giovane iniziato si urlava e si soffiava nelle orecchie fino allo stordimento.
Puoi aiutarci a fare luce e a comprendere meglio un fenomeno che, culturalmente e turisticamente, identifica il nostro territorio pugliese, ossia il tarantismo, la pizzica e il Festival della Taranta?
Quello del tarantismo è un antico rito o un complesso di riti legato, presumibilmente, ai culti dionisiaci. Il tarantismo ha perso la sua cultualità originaria e si è trasformato in qualcosa di nuovo, proprio perché è stato reinterpretato: uno stato modificato di coscienza o una trance da possessione o forse estatica, quale poteva essere quella dionisiaca, è rimasta come trance ma è stata legittimata in maniera diversa. Come ciò sia accaduto è difficile ricostruirlo; come si sia passati al ragno non è semplice comprendere, ma sappiamo che ci sono molte società all’interno delle quali vi sono degli stati modificati di coscienza e, soprattutto, di possessione che sono associati a serpenti, rettili e insetti pericolosi o velenosi, ossia a qualcosa di veramente estraneo all’uomo: quindi, alla base c’è una relazione tra l’uomo e il totalmente altro da sé, che può essere concettualizzato come divinità o come qualcosa di terrificante e spaventoso. Soffermiamoci sulla semplice relazione “io-altro” con cui si istituisce anche una comunicazione tra l’io e la società: questo è un po’ il senso degli stati di trance, così com’erano quelli da possessione, estatici, dionisiaci e quello che chiamiamo tarantismo.
In seguito, l’ulteriore passaggio è stato quello di diffondere quella musica, o particolari varianti di essa, basata su ritmi difficilmente scrivibili su carta nei termini di una musica occidentale colta e logico-speculativa; forse quella musica, forzandola nella scrittura, è stata modificata, forse è stata modificata perché gli strumenti erano altri, oppure perché gli autori erano altri e pensavano diversamente, in funzione del pubblico… Per varie ragioni, difficili da ricostruire, oggi abbiamo questo prodotto, che ha anche una sua commerciabilità perché è recepibile con le chiavi di lettura e l’udito della modernità: da secoli non è più musica dionisiaca o orfica e non è nemmeno quella del Seicento o del Settecento, quando si riteneva che potesse essere una forma di terapia; oggi la musica legata al tarantismo si è trasformata in qualcosa di nuovo.
Personalmente, ho studiato De Martino, ma non concordo con la ricerca illustrata nel suo La terra del rimorso: credo che De Martino non abbia afferrato il senso del tarantismo, anche perché mi sembra che non colpisca il concetto di stato modificato di coscienza. De Martino è un positivista che ritiene di dover dare spiegazioni senza nemmeno comprendere davvero e fino in fondo cosa ha davanti; basta pensare alle sue polemiche con Mircea Eliade… Il mio approccio è questo: bisogna lavorare mettendo in correlazione quello che il ricercatore vede con quello che gli stanno raccontando le persone, e che per loro è un rituale; dopo è auspicabile che il ricercatore stesso pratichi ciò a cui si sta interessando, così ha più probabilità di comprendere di cosa si tratta. Come si fa a comprendere se non si vive un’esperienza?! Non è possibile, o comunque è riduttivo.
Inoltre, direi che bisogna ringraziare i tarantati e il tarantismo perché questo ha significato una grossa fortuna per la nostra Puglia, in quanto rispondeva alle esigenze del mondo urbano contemporaneo. Abbiamo recitato bene la parte dei selvaggi sufficientemente addomesticati tanto da poter essere compresi: che ben venga questo malinteso, visto che è servito a dare un’immagine della Puglia che non fosse quella arcaica delle plebi arretrate, immagine della quale è responsabile anche De Martino. Lui che veniva dalla grande Napoli iper-razionalista e pensava di essere l’alfiere del mondo industriale operaio, ha visto le nostre plebi contadine, arretrate e arcaiche, ferme a immemori rituali senza però capire di cosa si trattasse: non si può semplificare così l’essere sociale!
Il fatto che oggi ci siano molte persone che ballano o imparano a ballare la pizzica, partecipando a “La Notte della Taranta” e ad altri concerti simili, è molto interessante perché è un modo per tornare a un rituale dionisiaco dove si vive un’ex-stasis letteralmente intesa, ovvero un’uscita dalla stasi dell’uomo inteso come consumatore per cercare, anche se per un breve momento, di evadere da sé o dal contesto e di entrare in una dimensione meno razionale, di tentare di comunicare con gli altri in forme nuove, di avere un syn-pathos e un desiderio di condivisione di emozioni.
E’ stato pubblicato un numero di “Dada. Rivista di antropologia post-globale”, di cui sei direttore, dedicato alla trance. Qual è il rapporto tra musica, suono e trance ?
C’è un testo classico di Gilbert Rouget, intitolato La musique et la transe, ricco di spunti interessanti: non c’è un rapporto molto diretto tra musica e trance, nel senso che non c’è una musica ascoltata la quale chiunque può automaticamente raggiungere la trance. Sicuramente c’è una relazione forte tra suono e trance, non fosse altro che per la parola che è un suono. Ci possono essere delle induzioni di trance, complesse da attuare, senza l’uso di parole ma solo con vibrazioni o percussioni: è un sistema tecnicamente molto elaborato e tra i meno utilizzati. Tornando al rapporto tra musica e trance, un individuo può amare particolarmente una musica, con cui ha una relazione profonda e che potrebbe procurargli degli stati modificati di coscienza ma se non sono ritualizzati non si può dire che siano adatti a realizzare la trance. Forse per chi suona è diverso: lo stesso Rouget parlava di “tranz des vaches” e si riferiva a chi suona il corno alpino, tipico della Svizzera; soffiando si possono raggiungere forme di iper-ossigenazione o di ipo-ossigenazione, contribuendo a raggiungere uno stato confusionale e la destrutturazione dell’ordine percettivo-sensoriale abitudinario che è una condicio sine qua non per l’entrata in trance. Le prospettive, quindi, sono due: una è quella del suonatore e l’altra è quella di chi sta ascoltando, ma sono diverse; chi suona ha più probabilità di andare in trance rispetto a chi sta ascoltando.
Il suono, invece, permette l’analogia perché, come dicevamo, si esce dal sistema del pensiero “binario” logico-speculativo: già questo permette di porre delle condizioni al contorno favorevoli all’entrata in trance. Ancora, il percorso verso la trance può essere definito in vari modi. Per semplificare, secondo un acronimo elaborato dalla Scuola di Ipnosi di Torino, ossia “Se Molta Fede”, ci riferiamo ad una sincronizzazione emotiva: ad esempio, uno schioccare di dita o un suono profondo creano la condizione per sincronizzarsi emotivamente. Successivamente si destruttura, magari con un altro suono, quello che è l’assetto ordinario dell’individuo e si entra, con ulteriore passo, in un nuovo contesto che porta ad uno stato modificato di coscienza. Il suono, quindi, aiuta a sincronizzare e a destrutturare l’esperienza di partenza e, dunque, mette subito in una condizione ideale per entrare in trance. In seguito, dovranno essere compiuti gli altri passi… e in ciò gioca un ruolo fondamentale la parola, come viene pronunciata e la sua tonalità. Non è così?