Quando ero studente al Politecnico, ho avuto la fortuna di seguire i corsi del prof. Corrado Levi. E’ un artista e architetto che si ama o si odia. Io l’ho amato platonicamente. Ha saputo insegnare, senza mettersi in cattedra, a osare con leggerezza, senza ostentazioni spettacolari ma con la forza del pensiero libero che, gradualmente, poteva tradursi in architettura.
Corrado Levi ha lavorato, tra gli altri, con Carlo Mollino e Franco Albini e ha scritto molti libri sul progetto e sull’arte.
Alcuni dei suoi libri, purtroppo, sono ormai introvabili come “Per una diversa tradizione” in cui, riunendo le sue lezioni svoltesi al Politecnico negli anni ’80, si soffermava su Eric Satie, Alighiero Boetti, etc. ovvero su artisti non canonici ma fondamentali per allargare i propri orizzonti.
Mi viene in mente una frase di un suo libro che mi fu regalato da un mio caro amico, anche lui ex studente di Corrado Levi.
“New kamasutra. Didattica sadomasochista” (Salamandra, Milano, 1979), il cui contenuto è abbastanza chiaro fin dal titolo, è anche un libro di passioni romantiche, un po’ malinconiche, e di architettura. Eccola:
(Dieu reconnaitra les siens)
Mi piace da matti guardare gli indumenti tolti con gran furia durante il trasporto (?) erotico: li trovo qua e là sul pavimento, le spoglie, lontani fra loro, formanti strane figurazioni. (si potrebbe leggere la vita dalla loro disposizione?: una nuova scienza).
E’ una frase che parla degli spazi che restano e di come restano, dopo averli vissuti. Non si tratta di un semplice disordine di oggetti sparsi, ma di ciò che rimane dopo aver vissuto scene private e personali che non si fermano alla meccanicità del gesto ripetitivo ma si caricano di contenuti emozionali. Basterà mettere in ordine e ciò che è avvenuto in quegli spazi verrà apparentemente rimosso con rapidità ma resterà indelebile nella memoria.
Qualche tempo fa ascoltavo un’intervista ad Ettore Sottsass. Mi colpì una sua risposta alla domanda “abitare è facile?”. Una domanda “borghese”. La risposta di Sottsass era così semplice e personale, ma nello stesso tempo universale e radicale per chiunque si arroghi il diritto, per mestiere, di progettare la casa che verrà abitata da perfetti sconosciuti.
“Vivere non è facile e quindi nemmeno abitare è facile. (…) Magari hai tante belle arance e i fiori nella tua stanza, ma poi qualcuno ti dice che tuo padre sta male e allora diventa improvvisamente difficile vivere lì”.
Provo a mettere in pratica, perché mi è naturale in questo momento, le due riflessioni di Corrado Levi e di Ettore Sottsass.
La casa in cui mi trovo, in questo preciso istante, si affaccia su di un piccolo cortile interno, dominato dalla presenza di un albero.
I rami entrano quasi in casa, attraverso la porta finestra. Pensando al paesaggio sonoro di questa stanza, la presenza di un albero permette di ospitare periodicamente uccelli che si fermano sui rami e iniziano a cantare.
Ho voluto fissare il ricordo di quei suoni e ho registrato un merlo, che si era posato su di un ramo, in un giorno di tarda primavera calda e assolata. Si può cercare di custodire scene quotidiane attraverso registrazioni e fotografie, ma è la memoria emotiva a restare.
Quando ho cercato di fotografarlo, era già andato via.
Anche io.