Alex Giordano è un grande comunicatore per dote naturale. Pioniere del social media marketing, è co-fondatore di Ninja Marketing insieme a Mirko Pallera. Attualmente è co-direttore del Centro Studi Etnografia Digitale , dove si occupa di etnografia digitale ed antropologia evoluta. Lavora al gruppo di ricerca sul Societing per la creazione di un modello applicativo di Etnografia Digitale come metodologia di base per i progetti di Social Innovation. Ha al suo attivo numerose presenze in workshop, convegni e seminari. Tra le sue pubblicazioni, è co-autore di “Marketing non-convenzionale. Viral, guerrilla, tribal e i 10 principi fondamentali del marketing postmoderno “ (Il Sole 24 Ore, 2008) e ha curato, con Adam Arvidsson, “Societing Reloaded. Pubblici produttivi e innovazione sociale” (Egea, 2013).
E’ un dato di fatto che la musica funzioni come collante per vecchie e nuove generazioni: chiunque viene affascinato dalla musica. Qualsiasi evento, con la musica, crea maggiore coinvolgimento rispetto a che se non ci fosse. Nell’ambito del marketing, che per sua natura vuole muovere le persone, quale uso si fa della musica? E’ utile e funzionale ad obiettivi commerciali?
Il marketing classico, se pensiamo alla pubblicità e alla produzione multimediale, paga un debito molto forte al cinema, che non può essere separato dalla musica e dalle colonne sonore. Sicuramente, quindi, c’è un rapporto molto profondo tra musica e marketing, che diventa interessante proprio perché oggi il tempo appare sempre più una scelta. Pensa alla televisione che ti impone un palinsesto e, al contrario, a YouTube dove puoi scegliere di sentire quello che vuoi e quando vuoi. La possibilità di scelta oggi è stimolante perché favorisce anche un approccio “tribale”, che si nota molto nel marketing di questo momento, che permette di lavorare per affinità a dei mondi che sono molto ben rappresentati da certi tipi di sonorità e di musica. Questo per quanto riguarda la pubblicità e la produzione multimediale in genere.
Penso, comunque, che nel marketing sia molto interessante, nell’approccio esperienziale, una dimensione sinestetica che va a recuperare la dimensione del suono oltre che della musica. Se pensiamo ad alcune pubblicità di pasta, ad esempio, dove c’è un’enfasi sul rumore della scatola, la texture al palato di alcuni cibi, tutto fa capire che il valore del suono ha la sua influenza non solo nella progettazione del prodotto ma anche nell’organizzazione degli spazi. A volte è una scelta strategica progettare uno spazio che sia particolarmente sonorizzato, sia in termini di musica sia di silenzio. Quindi, curare l’aspetto musicale funziona.
Poi dipende anche molto dalla sensibilità di chi crea campagne marketing o promuove un prodotto. Per noi che abbiamo una sensibilità artistica, l’aspetto musicale non è di secondo piano. Anche negli eventi che organizziamo, rispetto ad un atteggiamento un po’ sciatto che c’è in Italia, l’aspetto musicale è sempre molto curato, perché abbiamo sempre pensato che avesse bisogno di rispetto e di professionalità serie (musicisti ma anche ingegneri del suono), sia nel caso di grandi eventi musicali sia nel caso delle piccole esperienze. Inoltre, c’è anche un discorso psicoacustico da affrontare: magari il pubblico non lo nota subito, ma abbiamo sperimentato che comunque si sente più a suo agio se c’è un tappeto sonoro ben scelto. Personalmente, sono il primo ad accorgersi: non posso assistere ad eventi dove non c’è attenzione all’atmosfera sonora, perché mi sento “scomodo”. Purtroppo in Italia c’è molta disattenzione verso questo aspetto.
Penso ad un grande marchio come l’Heineken che organizza il Jammin Festival, ad esempio.
Ecco, lì c’è un discorso di aggregazione dove non solo ci sono grandi artisti che si esibiscono, ma ci sono degli standard tecnici da rispettare. Se pensi a Woodstock, gli impianti audio erano commisurati all’epoca, e penso che dalla centesima fila in poi non si riuscisse ad ascoltare nulla! Oggi, invece, le richieste, anche sul piano tecnico, sono alte. Purtroppo, ripeto, in Italia si trascura questo aspetto. Ci sono comunque, fortunatamente, alcune agenzie che invece curano la qualità dell’ audio e dell’atmosfera musicale. Anche i tecnici sono sempre più preparati, perché fino a qualche anno fa il service era affidato ad elettricisti che non sono sempre tecnici audio.
Hai avuto esperienze di campagne marketing in cui la musica era un elemento di particolare importanza? Penso a “Come suona il caos”, la street academy supportata da Tim Tribù.
Tim Tribù era tutta concentrata sulla musica. Avevamo scelto, come agenzia, di concentrarci sul mondo della street art. Avevamo individuato, già con le prime esperienze di analisi netnografiche, che tra le varie tribes online quella dominante, dal punto di vista del senso, era l’hip hop. Dovendo cercare un mondo di affinità della marca Tim Tribù lo avevamo individuato nel mondo della street art declinata nella street academy, dove quindi la marca diventava una piattaforma di socializzazione e di contenuti di varia natura. C’erano dei contest con writers, skaters, sport urbani ma l’accento forte era posto sulla musica, a cui abbiamo aggiunto l’esperienza di “Come suona il caos” che suggeriva anche l’idea di riciclaggio creativo perché Capone e altri musicisti, da materiali di risulta, creavano strumenti musicali e anche musica di qualità. C’era una funzione aggregativa, una funzione educativa (riciclo) e di identità rispetto al marchio che voleva presentarsi come una marca affine a questo mondo giovanile. Ha funzionato finché è rimasta attiva la tariffa Tim Tribù che poi l’azienda ha deciso di smantellare e con essa tutto il progetto.
Ho notato che, ultimamente, si sta puntando molto verso un uso commerciale del silenzio. Mi riferisco al fatto che, ad esempio, un department store come Selfridges in Gran Bretagna abbia lanciato la campagna “No Noise”, ossia uno spazio fisico all’interno del negozio in cui rilassarsi e una linea di oggetti e abiti senza logo o, se il logo è noto, reso graficamente più leggero ma sempre riconoscibile. Secondo te, perché si vende il silenzio? Può funzionare, dal punto di vista del marketing, un simile approccio? Che target finale vuole raggiungere?
Il silenzio si vende perché è una delle frontiere del lusso. Come dice Thierry Paquot , il lusso del prossimo contemporaneo è rappresentato da tre trend: tempo, spazio e silenzio, che sono i tre elementi di scarsità in questo momento. Siamo always on, sempre connessi e presenti e ci manca la dimensione del kairos, ossia del tempo come scelta: invece siamo sempre nel kronos a subire l’inesorabile scorrere del tempo. Il silenzio è acustico da un lato ma simbolico dall’altro, ossia una necessità di recuperare i tempi meditativi. Parlo di me: sono sempre in movimento e a volte mi manca “ciò che sta in mezzo”, ovvero il fermarsi un attimo per assaporare la contemplazione e il silenzio.
Tutto sommato, il lusso pacchiano non è più esclusivo. Oggi è più esclusivo chi può permettersi di vivere le dimensioni di cui parlavamo prima; si tratta di un lusso con “coscienza”, perché presuppone il riconoscimento di essere e di vivere nel rumore. C’è un altro tipo di lusso ostentato e rumoroso anche nel mettere in mostra marchi e loghi: si tratta di due modi diversi e antitetici. Ricordo che a Cuba mi dicevano che è facile fare i pacifisti a pancia piena. Oggi si parla di ritorno alle origini, all’essenza delle cose, ma ci sono i popoli emergenti che invece dimostrano di volersi godere il sogno di modernità, anche se rumoroso.
Musica e pubblicità: progettazione ex novo di colonne sonore e scelta di canzoni o musiche già esistenti. Cosa funziona meglio?
Scegliere cosa funziona di più è sempre una questione di case by case approach, per tanti motivi. Innanzitutto dipende anche dal budget, perché usare una canzone già esistente, magari anche nota, costa molto di più che farsene scrivere una nuova. A volte puoi creare una cover ma bisogna pagare i diritti editoriali, che sono comunque costosi. Oppure c’è una terza via, che è quella di far progettare un jingle. A parte il discorso economico, la scelta dipende dal caso e quindi dal marchio. Se c’è un brand particolarmente legato all’immaginario di una canzone, può essere conveniente sceglierla, anche se costa molto. Però, non è da sottovalutare la creazione di un jingle ad hoc perchè oggi sono particolarmente efficaci sotto il profilo della memetica. E’ un approccio di cui parla Richard Brodie ne “Il virus della mente” e fa riferimento a presunti pattern neurolinguistici che vedono in alcune forme di organizzazione della melodia una più facile acquisizione cognitiva, rendendola più facilmente memorizzabile. Alcuni marchi chiedono di creare il proprio jingle sulla base dei pattern memetici, come ad esempio un nostro cliente, Santhè, che si rivolge a un target di bambini: lo spot è spesso visibile in canali dedicati a loro e, avendo scelto un jingle costruito sui pattern di cui parlavamo prima, all’inizio può sembrare fastidioso ma sicuramente resta in mente!
Sound branding: Bmw, Harley Davidson, etc. Secondo te è utile avere un proprio sound logo ai fini della riconoscibilità del marchio?
In generale, secondo me, ogni senso attiva delle aree diverse del cervello e quindi occorre capire cosa stimolare: in alcuni casi, quindi, il suono può fare la differenza. Non è un caso che per marchi come Bmw o Harley Davidson, dove sei tu e il prodotto, a volte il suono serve a rafforzare ancora di più questa relazione e quindi a unire te e il prodotto estraniandoti dal resto del mondo. In questo caso il sound logo ha un senso. Ad esempio, se pensi al suono di Windows all’avvio o dell’Iphone, essi sono parte integrante dell’esperienza. Però penso che per tanti altri casi non sia necessario. Bisogna valutare caso per caso perché il suono può lavorare su due relazioni principali: utente-prodotto o, molto più interessante, utente-utente e mi riferisco, per quest’ultimo caso, ai suoni delle chat o delle suonerie dei telefoni.
Cos’è per te la musica?
Spesso, quando mi guardo indietro, penso che la mia formazione sia legata al fatto di essere una persona molto curiosa. Ho studiato con profitto finché ho avuto voglia e piacere nel farlo, con grande interesse per gli studi classici, la poesia, la letteratura, la filosofia. Però ho avuto una grande passione che mi ha salvato da tutto, ed è quella per la musica rock. Quando ero liceale, avevo una band: suonavo nei locali, finivo alle 4 di notte e poi andavo a scuola, era questa la mia vita, un po’ disordinata. L’esperienza psichedelica, attraverso la musica e non le droghe, mi ha aperto dei mondi nuovi. Ricordo dei momenti di grande emozione e di grande immaginazione ascoltando, le prime volte, Jimi Hendrix che mi faceva capire che c’era la possibilità di un altrove che si apriva attraverso la musica. La musica è stata una chiave di interpretazione importante anche per capire la poesia, i classici greci e tante altre cose. Quella visione carnale, passionale ed emotiva che a un certo punto riusciva a fondere mente, corpo ed emozioni l’ho imparata ascoltando e suonando musica, soprattutto quella psichedelica.
Questa esperienza, questa capacità di crearsi anche altri mondi possibili, mi è servita anche nel lavoro come pubblicitario, come stratega, come creativo, per la possibilità di riuscire a vedere altro dall’ovvio. La musica è stata una chiave di interpretazione della realtà. Poi ho capito che è più importante “risuonare” che volere e desiderare: se riesci a sintonizzarti e a risuonare per simpatia, tutto va come deve andare. E’ anche un esercizio che permette di fluire con gli eventi: è importante capire come risuonano le cose e quindi cercare il proprio posto in questa risonanza. La musica me lo ha insegnato.
Inoltre, la musica mi ha anche salvato da tante esperienze un po’ distruttive: alcuni miei amici sono morti per droga e quindi ho capito che avere una passione salva anche dalla depressione, che nella musica può avere un canale per essere sublimata, perché la tristezza o aspetti più cupi della propria vita possono avere una loro vibrazione. Ancora oggi, quando non sono felicissimo, vado da Nicola, il mio amico bassista che suonava con me. Lui ha uno studio di registrazione e ci vado anche la notte, perché lui è sempre lì: senza dirci nulla, suoniamo e ci sembra di avere ancora 16 anni. C’è sempre qualche musicista bravo da lui, io suono tutto e niente, quindi prendo il posto che mi compete, suoniamo e stiamo bene. Suonando insieme, abbandoni anche l’egoismo che ci può essere dietro alla depressione e capisci che non ci sei solo tu ad avere dei problemi: condividendo, grazie alla musica acquisisci quasi un’energia superiore.
Oltre alle tue parole, ci faresti un altro regalo?