Elanor Colleoni e’ sociologa esperta di nuovi media. Si occupa approfonditamente di dinamiche sociali e media digitali. Ha lavorato presso l’Universita’ di Milano e la Copenhagen Business School. Qui le sue pubblicazioni.
Quali sono i presupposti del movimento peer to peer? Come e perché si è diffuso?
Secondo me, il presupposto principale del movimento peer to peer (p2p) e il motivo per cui si è diffuso è che si poneva fortemente come una trasformazione generazionale: l’idea era quella di condividere una cultura giovanile in cui, ad esempio, la musica fosse un elemento caratterizzante. Inoltre, l’accesso e l’utilizzo di certe tecnologie, in un modo molto orientato all’hacking, era proprio delle nuove generazioni: chi per la prima volta si trovava ad usare il computer aveva un approccio diverso da quello di oggi, perché un tempo, nei primi anni ’90, non era così user oriented e quindi bisognava creare tutto da soli. Di conseguenza, il computer era visto come una macchina e avvicinarsi alla tecnologia era un atto critico, perché c’era il desiderio di esprimere, con quei mezzi, la propria personalità. Dal punto di vista teorico, ricordo che agli inizi si ripeteva spesso l’idea che la nostra formazione culturale fosse il risultato della traduzione di qualcosa che esisteva già: ciò significa che la cultura non poteva mai essere proprietà di qualcuno, perché era sempre frutto di una storia che si poteva trasformare e che, in seguito, qualcun altro avrebbe continuato a modificare. Si rifletteva molto sul concetto di prodotto culturale e, solo in una fase successiva, di proprietà: all’inizio tutti intervenivano, trasformavano, creavano insieme dei contenuti ma, in seguito, ci si scontrò sul diritto d’autore di quelle creazioni. Pertanto, emerse la questione della proprietà intellettuale e il discorso diventò ancora più politico, aprendo vari fronti tra cui quello giudiziario e delle battaglie legali.
Il formato MP3 è stato una vera e propria rivoluzione nell’ambito della riproduzione e della condivisione musicale. E’ significativo che il primo sistema per condividere contenuti protetti da copyright sia stato Napster che, appunto, permetteva il file sharing di MP3, ovvero di contenuti audio. Perché le prime forme di file sharing erano proprio di musica?
L’ MP3, dal punto di vista tecnico, è stato molto importante perché all’inizio non si poteva concepire la condivisione di un video, per il fatto che l’estensione del file era molto grande e la connessione a internet era molto debole, non potendo supportare questo tipo di scambio; la musica era contenuta in file MP3 compressi e di dimensioni ridotte e, quindi, più facilmente condivisibili. Questo è il motivo tecnico che spiega perché la musica è stata il primo tipo di contenuti ad essere condiviso, al di là del fatto che, come dicevamo prima, essa è un collante per i giovani che erano i veri protagonisti del movimento di scambio e condivisione online. La rivoluzione dell’MP3 risiede nel fatto che si era riusciti a comprimere i contenuti audio talmente tanto da permettere una loro facile diffusione. Inoltre, da ciò era derivato un modo per tutelarsi dal punto di vista legale: infatti, essendoci una compressione dei contenuti audio, da un lato si riusciva a condividere facilmente il file, dall’altro, poiché inevitabilmente si riduceva la qualità finale, ci si riusciva a tutelare perché il file in formato MP3 non veniva interpretato come una copia.
Manifesto Hackmeeting 2009. Credit: qui
Nel 2009 sei stata uno degli organizzatori dell’ Hackmeeting di Milano presso il C. S. “Fornace” di Rho. Ti ricordi se si discuteva delle questioni del file sharing musicale?
L’Italia è un contesto un po’ particolare: l’ Hackmeeting italiano e spagnolo sono molto politicizzati mentre quello tedesco, ad esempio, è molto tecnico e meno politicizzato. Da noi l’idea del file sharing è stata interpretata come concetto di uguaglianza: la cultura è sempre stata in mano a chi poteva permettersela (concerti o teatro a pagamento) e, quindi, si proponevano altri modi per aver accesso ad essa, dando democraticamente la possibilità a tutti di fruirne. A parte l’MP3 di cui abbiamo parlato prima, il Torrent è stato un’altra grande invenzione, che ha permesso una diffusione molto ampia di contenuti culturali. Questo succede perché il Torrent ottimizza la condivisione e poi, indicizzando e usando un file che sta su un server centrale a cui connettersi per poter effettuare un download, l’utente ha una protezione in più perché non si è precisamente individuabili in quanto singoli, come invece succedeva prima. La connessione internet è a banda larga, il sistema di condivisione è stato ottimizzato, l’utente è più protetto e condividere è diventato più semplice e diffuso.
I software open source, a tuo avviso, hanno cambiato il modo di creare e di condividere musica? Secondo te, dal punto di vista di un musicista, quali sono i benefici del file sharing di musica?
L’open source ha fatto parte del movimento p2p nel senso che, innanzitutto, ha aiutato a costruirne le idee. Inoltre, le modalità su cui si basa il movimento open source permettevano di sentirsi parte di una comunità e quindi ogni singolo poteva contribuire alla costruzione di qualcosa di condiviso; questo ha dato un’ “identità” a chi praticava il file sharing, anche supportandosi da un punto di vista legale perché la comunità avrebbe sempre supportato i propri componenti. L’open source ha, in un certo senso, istituzionalizzato una trasformazione nell’approccio alla costruzione di contenuti culturali online, creando un modello attraverso il concetto di comunità.
Per quanto riguarda la produzione musicale oggi, se una persona vuole, può farlo da sola perché ci sono molti strumenti a portata di mano come i software per l’editing o i social network per la promozione, che permettono di produrre e condividere. Infatti, i musicisti guadagnano molto di più dalla condivisione perché da un lato si può accrescere la propria popolarità e farsi naturalmente scegliere dal pubblico in modo diretto, senza dover passare da una etichetta discografica che seleziona. Inoltre, i musicisti hanno sempre guadagnato poco se venivano prodotti da altri, invece oggi è possibile inserire un banner, nel proprio sito, in cui chiedere una donazione se la musica è piaciuta agli ascoltatori: anche il fund-raising, quindi, è diretto e senza mediazioni. Poi, c’è anche la questione del diritto d’autore: un tempo, la condivisione dei contenuti o era totalmente libera oppure, se la si voleva limitare, si ricorreva al copyright; oggi le licenze Creative Commons permettono di scegliere con quali modalità rendere rigida o flessibile la paternità di un’opera e la sua condivisione.
Napster e gli altri sistemi che permettono la condivisione di materiale protetto da copyright di solito hanno avuto problemi con chi deteneva i diritti d’autore. Conosci altre forme per il file sharing di musica?
Un tempo c’era Napster: c’è ancora oggi ma non con le modalità iniziali. Oggi Torrent e Tor sono i sistemi migliori.
Secondo te, la battaglia “protezione-condivisione” è ancora difficile?
Secondo me no, perché è una battaglia già persa. E’ rischiosa perché chi vuole proteggere e tutelare i contenuti, di solito, spara nel mucchio e capita che puniscano un ragazzo adolescente, che ha scaricato una canzone, con una multa da migliaia di dollari. Quello che dovrebbero fare le case discografiche è cambiare il loro approccio: qualcuno già lo fa, ad esempio aprendo i contenuti con i teaser delle canzoni, in modo da avere un’anteprima online dell’album, prima di acquistarlo. Altri invece investono molto nel merchandising, ricavando non sulla vendita di album ma su ciò che è intorno, ovvero l’identità della band. Poi, è importante anche mirare al target giusto: le nuove generazioni quasi non hanno il concetto che la musica si compri! Possiamo dire che materialmente, quindi, le pratiche p2p hanno raggiunto i propri obiettivi di condivisione, però ci sono ancora alcuni problemi dal punto di vista legislativo: ancora oggi, ogni volta che si scarica materiale “pirata”, si corre un rischio. Quando il p2p e il movimento del file sharing sono esplosi, c’erano Paesi in cui poter essere tutelati, magari solo perché in essi vigevano delle regole che non erano state ancora aggiornate: un esempio emblematico è la Svezia. E’ noto che proprio in Svezia le cose siano cambiate, come la vicenda Pirate Bay ha dimostrato. Però, secondo me, finché ci saranno degli interessi forti, come quelli delle grandi case discografiche, la strada sarà tortuosa. Quando i poteri forti non avranno più un interesse materiale, allora le cose cambieranno chiaramente.