Maria Antonietta Epifani è docente di pianoforte presso il Liceo Musicale “G. Durano” di Brindisi. E’ laureata in Musicologia (DAMS di Bologna) e in Filosofia (Università del Salento). Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra cui “Ematoritmi” (Manni Editrice, 1998), “Stregatura” (Besa Editrice, 2001), “La Tavola dei Ricci – Olio Pane Vino Sole Luna” (Schena Editore, 2011) e “L’Amore” (Schena Editore, 2013). Attualmente sta curando la stesura di un manuale di Storia della Musica ad uso dei Licei Musicali.
Lei insegna da molti anni nella scuola pubblica: pensa che ci sia un’adeguata alfabetizzazione musicale in Italia?
Salvatore Sciarrino, in un’intervista, affermò che la distrazione nei riguardi della musica, rispetto alle altre arti della contemporaneità, è molto diffusa e questo dipende principalmente da come si è impostata la società e la scuola. In molte nazioni la didattica segue strade differenti dalle nostre, che incoraggiano e sostengono l’abitudine alla musica e alle arti in generale. Ne consegue una domanda quasi scontata, come può il pubblico abituarsi a cose che non ha mai ascoltato se andare a un concerto diviene solo un fatto occasionale? Il motivo per cui non abbiamo più pubblico è proprio questo.
Siamo ancora lontani da una adeguata alfabetizzazione musicale nel nostro paese anche se molto si è fatto. Sarebbe utile avviare una intensa attività per descolarizzare la musica e musicalizzare la scuola considerando l’educazione alla musica come passaggio obbligatorio per salvarla dalle possibili future dimenticanze e come condizione necessaria per costruire il pubblico di domani. Oggi, la portata comunicativa dei linguaggi verbali non sembra essere in pericolo; la capacità simbolica del pubblico a cui un artista in genere si rivolge è in piena crisi e, siccome l’arte non può sopravvivere senza il lettore, la minaccia è molto seria. Non pare che la politica sia attenta allo sgretolamento della comunicazione, del sapere e in particolare di quello musicale, anche se la cultura rende ricco un Paese ed è un valido strumento di sviluppo.
La musica non interessa ai partiti che sembrano comitati d’affari gestendo denaro pubblico ma non programmando cultura; infatti, considerano la musica come business o come immagine, non ritenendola elemento formativo nella cultura. La politica della cosiddetta “prima repubblica” aveva una chiara visione del mondo, racchiusa in coordinate ideologiche che costituivano un sistema di pensiero, anche se discutibile; oggi, invece, la crisi economica che stiamo subendo non ci aiuta, anzi, ci immerge in una disillusione e in un’amarezza e ci porta inevitabilmente ad uno stato di pessimismo rassegnato.
Le ultime politiche economiche hanno umiliato ulteriormente la cultura; i tagli in generale, e quelli operati a tutti gli istituti musicali e agli enti lirici, hanno determinato un considerevole assottigliamento con un proporzionale impoverimento delle proposte. Abbado alla domanda circa i costi della cultura rispose che, a chi sostiene che la cultura costa troppo, bisogna rispondere producendone di più. La risposta deve essere sempre positiva. E ancora, se qualcuno sostiene che la cultura non rende si squalifica da solo. Di contro, però, si è rivisitato l’insegnamento della musica superando il suo precedente ruolo ancillare; infatti, la recente istituzione dei Licei Musicali, luogo di studio, assicura la continuità dei percorsi non solo agli alunni provenienti dai corsi ad indirizzo musicale, ma a tutti gli allievi che vogliono acquisire competenze sotto l’aspetto teorico, interpretativo ed esecutivo. In Italia la categoria dei musicisti ha ancora grossi problemi nel riconoscimento perché il fare musica è legato ad un modello ottocentesco e cioè al genio che nasce predisposto all’arte. Si assiste, purtroppo, ad una sorta di timore per la cultura intesa come valore e come identità anche se la musica rappresenta una parte importante della storia della nostra nazione: è una ricchezza storica. Eppure, nonostante tutto, l’ignoranza musicale è ancora così diffusa che in molti ritengono che la musica sia solo intrattenimento o la si riduce ad un fatto ornamentale di cui nessuno si cura e tutti sono soddisfatti.
Dunque, è adeguata l’alfabetizzazione?
Secondo Lei, il nostro legame con la musica dipende da chi e da come ce la insegna?
Certamente, ne sono pienamente convinta. Alcuni studiosi hanno affermato che i maestri di musica rappresentano l’influenza ambientale più grande dopo quella dei genitori, non solo perché insegnano a suonare, ma anche perché assumono un ruolo motivante e influenzano i gusti musicali e i valori.
Il ruolo dell’insegnante è fondamentale perché si consolidi il legame con la musica; infatti, impostando con lo studente una relazionalità autentica e ricca di tensioni affettive, il docente riesce a condividere pienamente un linguaggio e di conseguenza una comunicazione: solo la sua “umanità” può determinare nel cuore e nella mente dell’allievo un’irripetibile catena di emozioni che si trasformano in significati e conoscenze musicali. L’alunno si sente più “performante” se il docente privilegia un’ autentica relazionalità e un legame affettivo con lui.
L’insegnante che riesce ad entrare positivamente nell’universo dell’alunno deve essere credibile ed esperto; deve saper insegnare trasmettendo le esperienze nel modo più efficace e coinvolgente e deve possedere la capacità di identificare le modalità e le strategie comunicative secondo le varie esigenze che si affacciano. Nel libro “Specchi sonori. Identità e autobiografie musicali” ho letto che l’autobiografia intesa come ponderata pratica pedagogica è importante, cioè dietro ad ogni suono c’è una storia, una soggettività, compresa quella del docente. Non si può dunque insegnare solo la tecnica. Romano Guardini, filosofo e pedagogista, alla fine degli anni ‘20, nel saggio “La credibilità dell’educatore” afferma che “la più potente forza di educazione consiste nel fatto che io stesso [cioè, io educatore] in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere. Sta proprio qui il punto decisivo. È proprio il fatto che io lotto per migliorarmi che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro”. Non credo si debba aggiungere altro.
Crede che sia più educativo l’ascolto della musica o lo studio di uno strumento musicale?
Non ritengo sia possibile operare una frattura fra ascolto e pratica essendo due elementi strettamente legati all’interno di un discorso di comprensione musicale; l’ascolto è legato alla conoscenza delle tecniche della produzione, all’acquisizione delle teorie musicali e alla capacità di elaborazione di prodotti, anche attraverso lo studio dello strumento musicale. Come ogni linguaggio, la produzione musicale è dotata di tecnica, sintassi e di una singolare modalità espressiva e, come avviene per ogni altro codice della comunicazione, va acquisito attraverso ascolto, lettura e produzione.
L’ascolto non è un’attività passiva, ma aiuta gli allievi a lavorare sugli elementi che fanno del brano musicale un “intero”. Lo strumento musicale deve essere collocato in un globale ambito formativo della persona e cioè non può e non deve essere solo acquisizione di abilità tecniche ma, ritenerlo uno strumento cognitivo, meccanismo per conoscere la realtà, per confrontarsi con gli altri, per manifestare emozioni.
Lo studio della musica apre e facilita il pensiero creativo. In un articolo pubblicato dal New York Times sembra che lo studio della musica possa sviluppare il senso di collaborazione, la capacità di ascolto e l’approccio interdisciplinare, solo per citare alcune qualità. Personalmente mi turba un po’ pensare che si studi musica per sviluppare alcuni aspetti della personalità, al di là dell’ausilio in casi patologici. Invece credo che sia preferibile studiare musica per l’esperienza in sè: ben vengano gli effetti collaterali, che di solito sono positivi. Cosa ne pensa?
La ricerca scientifica ha dimostrato che lo studio e l’ascolto della musica sviluppa l’intelligenza emozionale; secondo studi svolti in America e in Germania, lo sviluppo dell’intelligenza emozionale è basilare per l’equilibrio personale e per i rapporti con gli altri. La musica è un linguaggio che tutti possono comprendere, poiché procede principalmente attraverso l’emisfero destro; nel contempo, per poter essere un attivo strumento di comunicazione, si poggia su principi razionali e logici che sono di competenza dell’emisfero sinistro. Approfondendo la conoscenza del linguaggio musicale con la pratica e con l’ascolto, possiamo sviluppare, accrescere e potenziare il nostro bagaglio culturale e quello dei sentimenti e delle emozioni, cercando di ottenere dalle forme estetiche delle vere e proprie condotte etiche.
Il saper fare musica deve andare di pari passo con il saper sentire, abbinare cioè a competenze di carattere cognitivo quelle di carattere emotivo. Ci sono tanti motivi per cui la musica entra a far parte della vita di un individuo; il suonare come esperienza in sé si può riassumere in quella profonda necessità di arricchire ed espandere il proprio patrimonio. E’ indubbio che non si studia la musica esclusivamente per sollecitare le aree cerebrali, ma non è possibile scindere questo dato nel momento un cui si entra in contatto con il linguaggio sonoro, in qualsiasi sua forma.
Musica come forma di socialità: si suona per se stessi o per gli altri? La scelta incide sulla didattica musicale?
La musica è strumento dell’identità umana, perché l’uomo l’ha costruita da sé e per sé; l’individuo che fa musica e l’individuo che ascolta non sono monadi, ma richiamano un valore d’insieme. Chi fa musica è un individuo-collettività poiché istituisce “nella” e “con” la musica un legame sociale che va al di là della dimensione dello stare con se stesso, creando un reticolo relazionale molto profondo. Nella didattica questo è molto importante; infatti, il fare musica insieme è un’attività piacevole e coinvolge in modo totalizzante vari aspetti della personalità individuale. Vedere le cose semplicemente dal punto di vista del suonare per sé significa mettersi in una posizione marginale, cioè l’attività procura emozione, però, sei da solo con il tuo punto di vista, lontano dal sociale, rischi di diventare autoreferenziale.
Il suonare per sé non crea un’interazione; infatti, l’artista è spesso avvitato in se stesso e questa chiusura rischia di diventare la sua fossa creativa. Non esiste una netta divisione fra il suonare per sé o per gli altri, io penserei più ad un suonare da solo e con gli altri. Infatti, il suonare insieme è ascolto della/e persona/e che suona con te. La realizzazione d’insieme di un brano musicale si carica di una notevole valenza sociale ed emotiva, sviluppa la sensibilità verso la cooperazione, agevola l’inclusione sociale e stimola il controllo emotivo. Ogni esecuzione musicale richiede rigore e impegno notevole, possiede un alto potere formativo, facilita la socializzazione, aggredisce il degrado sociale, quindi la pratica musicale fa bene allo studente. E’ questo il caso in cui la musica essendo portatrice di un messaggio fondamentale- ascoltarsi- può, insegnare molto alla società, perché il suonare per sé è valorizzato dal suonare con gli altri. La musica evidenzia e valorizza così la socialità.
Sarebbe utile formare i giovani musicisti educandoli al fare musica insieme con passione, perché questo aspetto può farsi metafora di un modo diverso di pensare l’arte e la stessa esistenza. La ricerca concitata della sola affermazione personale, chiude la possibilità della gioia di appartenere a un gruppo con cui condividere passione, interessi e gioie.
Può capitare di aver portato a compimento lo studio di uno strumento musicale e di interromperne la pratica per dedicarsi all’analisi della musica in un modo diverso e più teorico, dalla téchne alla sophìa (si tratta del mio caso…). E’ una scelta che spesso non viene condivisa da chi, dall’esterno, invece pensa che si tratti di un incomprensibile “tradimento”. Cosa ne pensa?
Sono scelte di vita che non vanno interpretate come tradimento, perché téchne e sophìa sono due differenti modalità di “esperienza della musica”, ma non sono separate. E’ necessario, infatti, superare quella tradizione filosofica assoggettata all’idea pregiudiziale della denigrazione intellettuale per la téchne, un disprezzo che si fonda da tempi lontanissimi sulla presunta superiorità intellettuale della sophìa su cui deve essere catalogata ogni forma di sapere, specialmente quella musicale. La musica è ampiamente analizzata nel dibattito filosofico e molti sono gli interrogativi sul come categorizzarla, intenderla, interpretarla: la musica intesa come linguaggio e come espressione, come tecnica e come arte, come essenza del dionisiaco e come equilibrio apollineo. E’ connessa ai nostri stati emotivi, alla nostra esistenza e ci induce a pensare perché, non essendo un dialogare teoretico, lascia un vuoto che il ragionamento tenta di colmare. La competenza musicale sia dalla parte della téchne sia dalla parte della sophìa deve appartenere a tutti. Inoltre, la musica è un’esperienza sensoriale molto forte e la qualità del futuro musicale delle generazioni a venire dipende da ciò che ascolteremo e che sapremo concepire. Mi piace concludere questa conversazione con le parole del grande Claudio Abbado che del linguaggio musicale in generale, senza la differenziazione téchne o sophìa, diceva “il linguaggio musicale è il linguaggio più aperto: che si parli una lingua o un’altra non ha nessuna importanza. L’importante è capirsi, ascoltarsi. Che poi è un principio di vita“.