Bertram Niessen è sociologo ed artista elettronico. Come docente, autore e progettista si occupa di spazi urbani, economia della cultura, DIY 2.0 e manifattura distribuita, culture della rete e della collaborazione, innovazione dal basso. Ha svolto un PhD in “Urban European Studies” presso l’Università di Milano-Bicocca (UNIMIB) analizzando le relazioni tra città, economia della creatività e processi d’innovazione sociale, con un focus sulla co-optazione degli artisti nelle economie post-fordiste. Nel 2001 è stato membro fondatore del collettivo sperimentale di arte elettronica otolab, con il quale investiga la rappresentazione drammaturgica del suono. Dal 2012 è tra gli ideatori e il project manager di cheFare, premio da 100.000 euro per progetti di innovazione culturale promosso da doppiozero. Insegna, in corsi graduate e post-graduate, metodologia della ricerca, sociologia della cultura, sociologia urbana e nuove tecnologie per la ricerca sociale. E’ docente di Performance Audiovisiva presso la NABA di Milano e in corsi, seminari e workshop in vari altri luoghi. Collabora con doppiozero, il Center for Digital Ethnography, la Foundation for P2P Alternatives; periodicamente scrive per Digicult , IL e numerose riviste, blog e quotidiani. Questo è il suo blog e il collegamento a twitter.
Michel Chion ne “L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema” descrive il contratto audiovisivo come una forma di integrazione tra immagine e suono in cui ogni elemento influenza l’altro reciprocamente. La più importante relazione tra suono e immagine è quella del valore aggiunto, ossia “il valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un’immagine data, fino a far credere che quell’informazione o quell’espressione derivino naturalmente da ciò che si vede e siano contenute già nella semplice immagine”. Secondo te, la musica è un contesto per le immagini o viceversa?
E’ molto difficile rispondere perché, a seconda di molti parametri, cambia la modalità di fruizione. La funzione dell’esperienza estetica può essere legata al puro intrattenimento, essere più analitica o, al contrario, essere muzak, ovvero copertura di altri tipi di segnale. per aiutarci, potremmo immaginare di costruire una griglia in cui da una parte ci sono le funzioni (estetica, analisi, etc.) e dell’altra ci sono i luoghi della fruizione (cinema, discoteca, rave, televisione, etc.).
A mio avviso, comunque, il punto chiave è l’esperienza sinestesica, ossia capire in che modo sensi diversi coproducono il senso dell’esperienza; poste queste premesse, innanzitutto bisogna capire quali siano gli intenti di chi produce l’opera e, di conseguenza, la modalità di fruizione di chi la riceve (cose che possono essere anche molto in disaccordo tra loro). Mi rendo conto che sia, per certi versi, una visione un po’ funzionalista, che ricorda i modelli classici della comunicazione degli anni ’50, però può essere un buon punto di inizio per indagare la questione del rapporto tra suono e immagine. Certo, in uno schema come quello prima descritto vengono meno i valori aggiunti insiti nel rapporto suono/immagine, che non sono deducibili nella sequenza emissione/codifica/trasmissione/decodifica/ricezione, che infatti è un modello meccanicista degli anni ’50 e che derivava dagli studi compiuti in ambito militare; tuttavia, nei decenni successivi, l’analisi è diventata sempre più complessa perchè si è iniziato a parlare di interpretazione e, quindi, di valore aggiunto. In realtà, se pensiamo all’oggi, credo che sia importante riflettere sul fatto che viviamo in un ambiente saturo dal punto di vista mediatico e comunicativo che, a seconda di tante variabili contestuali, ci fa passare continuamente da stati percettivi-ricettivi diversi. A questo si aggiunge la continua tensione all’integrazione di fruizione e produzione (lo sviluppo del “prosumer” di cui parla Jenkins) rendendo l’analisi inevitabilmente più compicata.
Il cinema, ai suoi esordi, era uno spettacolo destinato ad un pubblico borghese e, progressivamente, è diventato uno dei generi di spettacolo più diffusi ed economici. I primi film erano muti ma accompagnati da un sottofondo musicale suonato dal vivo, che attingeva ad un repertorio di brani classici e scelti in funzione dell’atmosfera emotiva da supportare nella narrazione fatta per immagini (cue sheets). La successiva evoluzione del linguaggio cinematografico ha portato ad una fusione di immagine e suono, ossia al “contratto audiovisivo” di cui parla Michel Chion. Secondo te, il cinema ha agito come una sorta di “biblia pauperum” nell’ottica di una educazione all’ascolto?
Io, invece, mi domanderei: perché il cinema e non la radio? Il primo grande mass medium è stato la radio. Sicuramente il cinema ha giocato un ruolo importante ma, affinché si arrivasse ad una codifica del patto semantico o del contratto audiovisivo, occorre andare molto avanti nel corso del Novecento; per questo credo che la funzione di “biblia pauperum” sia stata svolta in prima istanza dalla radio, successivamente dal cinema e infine dalla televisione. Da Orson Welles a Hitchcock, ci sono tanti registi che hanno costruito le proprie cifre autoriali anche basandole intensamente sul suono, ma si tratta di un fenomeno recente rispetto alla radio.
Ascoltare un film alla radio ha la stessa efficacia che guardarlo al cinema?
Ovviamente no, proprio perché c’è il valore aggiunto dato dall’immagine ma non è un caso che Orson Welles sia stato prima di tutto un grande conduttore radiofonico: “La guerra dei mondi” è stata prima di tutto un’operazione per la radio. Quindi la radio ha stabilito per prima, rispetto al cinema, gli automatismi semantici per platee ampie, attraverso un ascolto popolare e diffuso.
Domenico Liggeri in “Musica per i nostri occhi. Storie e segreti del videoclip” afferma che “attraverso la videomusica hanno potuto raggiungere il grande pubblico le sperimentazioni visive più ardite: il videoclip è riuscito a rendere digeribili al grande pubblico innovazioni che la stessa massa invece rifiutava in altri ambiti di comunicazione audiovisiva”. Secondo te, il videoclip potrebbe essere definito come una forma di videoarte a scopo commerciale?
La forma d’arte in cui suono e immagine sono integrati in modo più interessante e diretto, oltre al cinema, è la Visual Music, molto vicina e, anzi, precursore della Videoarte degli anni ’60. In merito alla tua domanda, credo che non sia la posizione di mercato a fare la differenza; riferendoci al videoclip di “Bohemian rhapsody” dei Queen, che li lanciò nel 1975 quando ancora non erano conosciuti e che per questo motivo è considerato da Liggeri il primo videoclip della storia, certo, un conto è confezionare un prodotto audiovisivo per il mercato, ma dal punto di vista dell’estetica dell’opera i codici erano già stati fissati, per esempio, con i video realizzati per i Beatles qualche anno prima, anche se servivano solo per confermare un successo che il gruppo aveva già, rispetto agli sconosciuti Queen. Pensiamo anche ai film pop che cavalcavano l’onda del beat negli anni ’60: al loro interno possiamo dire che ci fossero dei videoclip, perché spesso c’erano intermezzi musicali da parte delle band del periodo.
Personalmente non propendo per collocare il videoclip dal punto di vista del mercato: credo che, semplicemente, ad un certo punto inizia a non essere più sufficiente vendere solo il singolo o l’album ma occorre promuovere l’immagine del gruppo a tutto tondo; “Top of the Pops”, trasmessa dalla BBC a partire dal 1964, è un esempio significativo da questo punto di vista.
E’ complesso e anche un po’ forzato voler inserire la Videoarte all’interno del mondo del videoclip, proprio perchè la Videoarte si codifica in modo molto esplicito e ha una specifica attitudine artistica poiché appartiene ai mondi dell’arte delimitati da collezionisti, galleristi, critici, curatori, artisti, istituzioni, etc. E’ sicuramente interessante vedere, come negli anni ’80, tanti registi abbiano realizzato videoclip e poi negli anni ’90, in virtù della maturazione dei mercati musicali indipendenti – soprattutto in Gran Bretagna – abbiano usato il videoclip come la base di partenza per la loro espressività, virando verso la regia cinematografica. Tra i casi più clamorosi, in questo senso, ci sono Chris Cunningham e Michel Gondry, entrambi partiti come registi di videoclip e poi di film per il cinema.
Recentemente ho visto il video della canzone “Movie”, realizzato dalla Factory di Andy Warhol per Loredana Berte’…
Sì, ma infatti questo è il punto: secondo me è pericoloso, nella storicizzazione, cercare di considerare le discipline come cose a sé stanti. Ad esempio, cosa sono i “Velvet Underground”? Sono un prodotto di Andy Warhol perché c’è una sua pesante impronta e ne cura lo stile e l’immagine? Alla fine sono soprattutto un gruppo musicale.
Dal punto di vista sociologico, come hanno contribuito trasmissioni televisive come “Top of the Pops” (BBC, 1964) o la nostrana “Discoring” (RAI, 1977) assieme al canale televisivo statunitense MTV (1981) a coniugare musica, giovani e industria culturale?
Secondo me quelle trasmissioni televisive sono state, in tempi diversi e con modalità differenti, i dispositivi culturali che hanno sancito la delimitazione del campo di produzione immateriale collegato alla creazione della fascia di consumatori giovane. Ad esempio, i giovani si sono definiti attraverso la costruzione della fascia di mercato prima del rock e poi di altri generi. Il videoclip ha sancito questa evidenza e ha definito lo stile in modo molto uniforme. Secondo me è interessante riflettere sul rapporto tra il bordo esterno e quello interno, ossia come il videoclip ha compattato universi simbolici che venivano principalmente da sottoculture, li ha definiti e li ha resi di massa: questo viene chiamato, di solito, integrazione. E’ avvenuto prima con i beat e successivamente con i rocker, i mod, gli hippy per arrivare alla sua massima espressione con il punk.
A questo proposito, secondo me è interessante una trasmissione americana degli anni ’70 intitolata “Soul Train”, in cui venivano presentati i principali brani soul e rhythm ‘n blues: c’erano due file di ragazze e ragazzi neri ai lati e, una coppia per volta, raggiungevano il centro della sala e ballavano, seguendo lo schema della quadriglia, guardando nella camera e seguendo il ritmo della musica: era un modo da un lato per presentare le hit della settimana e dall’altro per definire lo stile visuale. In effetti è stato un modo in cui l’identità nera si è codificata.
Di recente ho visto un film, “The Butler”, che racconta la storia del maggiordomo della Casa Bianca: è una pellicola interessante per capire il conflitto generazionale tra il padre, che veniva dal mondo delle piantagioni e, dopo un’ascesa sociale, era diventato parte della borghesia nera, e il figlio che studia e diventa militante nel movimento dei diritti civili con Martin Luther King e Malcom X. Nel film si vede molto bene come anche “Soul Train” abbia permesso la codifica visuale dei giovani neri attraverso le pettinature afro, i pantaloni a zampa di elefante, gli zatteroni e ciò che diventerà l’estetica disco pochi anni dopo.
Gli anni ’90 vissuti tra posse, centri sociali e rave: ci racconti la tua esperienza di adolescente in quegli anni?
Vengo da una famiglia in cui si ascoltava molta musica, prevalentemente quella degli anni ‘60, ‘70 e qualcosa degli anni ‘80: ricordo che, alla fine delle scuole elementari, mettevo in ordine le musicassette di mio padre, perché erano davvero tante. La colonna sonora di casa mia era da un lato Frank Zappa dall’altro Sade.
Allo stesso tempo, quando alla fine degli anni ’80 è arrivato in casa il videoregistratore, trascorrevo tutti i pomeriggi a registrare le puntate di “Videomusic”. Registrando, ho iniziato a maturare passioni musicali tutte mie, come Tom Waits o i Mano Negra. “Videomusic” proponeva trasmissioni colte e ben fatte, programmando musiche non banali e sperimentali, come ad esempio la new wave newyorkese. In seguito, verso il 1991-92, mi sono appassionato all’hip hop: in Italia non era ancora diffuso al livello di massa, anche se Frankie Hi-nrg era alquanto noto. Stando Grosseto era tutto remoto, lontanissimo. Nelle mie ricerche, ho trovato una serie di documentari sul mondo delle Posse e li ho registrati tutti: si parlava di Papa Ricky, di Sud Sound System, degli Assalti Frontali e di altri, che avevano punti di vista diversi tra di loro perché alcuni erano molto politici e altri meno; tra l’altro, anche grazie ad amici più grandi di me, in terza media ho iniziato a far parte del “Collettivo Studentesco Antifascista”: erano gli strascichi della Pantera, che proprio in quegli anni davano vita al nuovo movimento dei Centri Sociali.
C’era una fanzine intitolata “AL” (Alleanza Latina) che parlava di cultura hip hop, in stile americano. Uno dei collaboratori era Tomek, ossia il figlio della mia lettrice di francese delle scuole superiori. Assieme a lui e alla sua socia eravamo gli unici, nella provincia grossetana in cui sono cresciuto, a vestire con i pantaloni a vita bassa, il medaglione con il simbolo della pace, il cappellino con la visiera all’indietro, etc. A differenza loro, io ero veramente giovanissimo, e mi prendevano tutti in giro. In pochissimo tempo però, quando la moda hip hop ha iniziato a diffondersi, tutti si vestivano in quel modo anche perché gli Articolo 31 iniziavano ad avere successo e quindi i fan li imitavano anche nell’immagine.
Alcune delle mie più care amicizie, che durano ancora adesso, si sono costruite intorno alle Posse e con un mio amico più grande ne abbiamo anche fondata una (che in realtà non ha mai avuto nessun esito): iniziò un periodo di prove di rap militante un po’ naive, cercavamo di fare free style sulle mura di Grosseto improvvisando il beat box; ma in realtà non eravamo veramente capaci.
Sono sempre stato curioso e ho sguazzato sempre nel mondo delle sottoculture, quindi subito dopo quella delle Posse c’è stata la mia fase punk: c’erano un po’ di gruppi hardcore punk anarchici che gravitavano intorno a Grosseto (come i Cattiva Inclinazione), avevano la distribuzione di dischi e di fanzine, registravano le musicassette e ce le scambiavamo tra amici. Ad un certo punto, ho iniziato a mettere un po’ di soldi da parte ed a comprare le compilation per posta: bastava pagare 5000 Lire in francobolli e un tizio inviava musicassette di hardcore punk degli anni ‘80. Molti miei amici iniziarono a suonare e anche io ho suonato il basso per un periodo, ma con scarsi risultati. Ad un certo punto conobbi un ragazzo, poi diventato mio amico: si chiamava Pasquale, veniva da Napoli ed era venuto a Grosseto come obiettore di coscienza. Studiava filosofia e ascoltava quasi solo due generi musicali: musica rinascimentale ed hardcore punk anarchico inglese, quello tra il 1982 e il 1986. In realtà Pasquale era il chitarrista dei Sickoids che all’epoca era un gruppo anarchico conosciuto. In quella fase della mia adolescenza credo di aver dato molti dispiaceri ai miei genitori perché ho iniziato a seguire questi gruppi (i Sickoids ma anche gli Insult, e soprattutto i mitici DDI) e così ho iniziato a viaggiare per l’Italia.
Invece, per quanto riguarda il rave, l’approccio è stato strano: era un mondo che già conoscevo in quanto, a metà anni ‘90, quando ero molto giovane, mi era capitato di frequentarne qualcuno organizzato o in centri sociali (come il CPA) o in una zona di capannoni occupati di Firenze che si chiamava Osmannoro, per certi versi simile all’area Fintek di Roma. A me però non piaceva la musica suonata durante i rave, sia perché non la capivo sia perché la associavo ai tamarri di quartiere, ossia quelli che guidavano l’Ape fosforescente e avevano il mega impianto audio, fermandosi nelle piazze e aprendo gli sportelli (non che ci fosse niente di male, ma insomma non ci vedevo l’appeal controculturale che cercavo)… A un certo punto, però, durante l’ultimo anno di liceo, sono andato a Milano dove c’era una scena rave matura: non conoscevo nessuno lì, però mi piaceva frequentarli perché c’erano spettacoli come le performance di body art, che mi interessavano molto.
In seguito, ho scoperto quella che all’epoca si chiamava “brain dance” (i vari artisti Rephlex e Warp Records come Aphex Twin, Squarepusher o Autechre). E’ stato poco dopo che ho incontrato le persone con cui poi abbiamo messo in piedi il collettivo di artisti Otolab; ho conosciuto uno di loro online su una lista situazionista e mi ha invitato ai venerdì del“Caffè Letterario” in via Solferino. Era un locale un po’ “buona Milano” che però, il venerdì, veniva gestito in modo completamente autonomo. Si riuniva lì un gruppo di maniaci della techno e della musica sperimentale, soprattutto elettronica, che portavano i propri acquisti di dischi della settimana: i dischi venivano messi sul bancone, suddivisi per genere, si iniziava alle 19, a mezzanotte si abbassava la saracinesca, e nelle serate buone si continuava fino alle 6 di mattina. In quel milieu si è formato Otolab e con loro ho anche iniziato a frequentare rave e vari tipi di feste più private, dove si suonava techno.
La formula del rave è nota: un gruppo di persone più o meno organizzate entra in uno spazio abbandonato e suona musica ad oltranza per il maggior tempo possibile. A Milano i centri sociali erano molto attivi, da questo punto di vista, ed erano soprattutto il Pergola, il Bulk e il Breda che avevano intuito che l’uso della tecnologia potesse servire per creare qualcosa di divertente e socialmente e politicamente significativo. I primi esperimenti di visual sulla musica li ho visti in quei contesti: ricordo molto bene di aver assistito al Breda, nel ’97, ad una serata di breakbeat in cui i visual erano costituiti da parti di film in cui venivano ritratte persone che guidavano e le immagini scorrevano per ore. Homer Simpson seguiva John Travolta in Pulp Fiction che seguiva i Fratelli Marx. Fantastico.
I rave erano davvero diversi tra di loro e non è molto facile definirli. C’erano i technival, in cui centinaia di persone ballano per settimane, ma anche i piccoli party organizzati in campagna, dove ci si accampava con la tenda, si ascoltava musica e si ballava.
Posso dire che fino alla metà degli anni 2000 c’era in parte una maggiore consapevolezza sulle sostanze stupefacenti proprio perché, durante un rave, di solito, c’era almeno un help point per chi aveva abusato di sostanze e non sapeva gestirle oppure laboratori, legati a progetti pilota di alcune ASL particolarmente illuminate, che le analizzavano prima che fossero assunte. Ad un certo punto queste strutture sono venute meno perchè si è indebolito il movimento antiproibizionista consapevole.
Si puo’ parlare di scene rave con caratteristiche diverse a seconda delle città in cui venivano organizzate?
Sì e le differenze erano legate sia ai territori, sia al genere di musica. Le scene che conosco meglio sono quelle di Milano,Torino, Bologna e Roma e posso senz’altro dire che erano tutte diverse. Milano, da certi punti di vista, era quella meno hardcore; Torino era molto dura ed alcuni rave non erano molto sicuri sia perchè da un lato ci si era riversata una parte di lumpenproletariat abbastanza violenta, sia perchè lì gravitavano i raver francesi, più aggressivi di quelli italiani.
Roma aveva una scena più matura di quella di Milano, anche se più dura e per certi versi meno politica, perchè la scena techno romana era molto conosciuta in tutta Europa. A Roma c’era un’enorme area di ex capannoni industriali che furono occupati dando vita al Fintek, dove sono stati organizzati rave che sono ancora oggi rimasti nella memoria collettiva. Inoltre a Roma c’era una fanzine, Torazine, che riassumeva tutto un’immaginario controculturale “spinto” fatto di body modification, ketamina e scenari post-apocalittici.
Bologna era diversa dalle altre città, perchè c’erano centri sociali che si erano presto convertiti ad attività di rave, come il Livello 57 oppure il Link, che in seguito ha intrapreso un percorso di istituzionalizzazione. Bologna, a mio avviso, è la città dove la scena rave era più simile a ciò che succedeva nel resto d’Europa, almeno come varietà di situazioni diverse (c’era tutto, dall’antro technoabbestia al club supercool).
Un’altra variabile, ovviamente, era il genere musicale che si suonava perchè le persone che seguono la goa trance sono completamente diverse da quelle che apprezzano la tekno, proprio perché l’immaginario dell’hard techno era post apocalittico, cyber e anarchico mentre la scena goa trance è (tendenzialmente) più commerciale e segnata da un immaginario neohippy e new age.
Fai parte del collettivo di artisti multimediali Otolab: ci racconti la tua esperienza?
Quella con Otolab è stata prima di tutto un’esperienza personale perchè è stata la prima volta che mi sono sentito a casa a Milano: questo grazie alle persone, perché abbiamo passioni musicali e culturali molto simili e tutto si basa su di un’estrema ossessione per la progettazione che accompagna le riunioni e i laboratori e si conclude nell’evento finale. La grande differenza tra noi e la maggior parte degli altri collettivi di artisti credo che sia questa mania per la progettazione nel dettaglio: per affrontare qualsiasi performance o evento, soprattutto nei primi anni, organizzavamo decine di riunioni per decidere le minuzie dell’allestimento e del tipo di atmosfera che volevamo creare. Non è trascurabile il fatto che gli altri componenti erano più grandi di me, che all’inizio dell’esperienza avevo 21 anni e loro tra i 30 e i 50 anni. Venivano da esperienze prevalentemente di design, di architettura e di arte svolta a livello professionale o dal management: erano persone già abituate a intraprendere processi progettuali per portarli avanti all’estremo.
Questo modo di lavorare all’inizio era molto faticoso, perché non volevamo scendere a compromessi e il pubblico non sempre rispondeva come speravamo al nostro gioco di “alzare l’asticella”. All’inizio degli anni 2000, nei centri sociali, che sono stati in gran parte i luoghi in cui ci esibivamo, il publico voleva principalmente ballare mentre noi proponevamo molta techno sperimentale, industrial, noise e installazioni e visual che giocavano con la percezione e la stroboscopia. A volte si creavano anche delle tensioni. Però, dato che la nostra proposta era molto attenta alla qualità, da subito abbiamo ricevuto inviti da parte di molte organizzazioni e abbiamo viaggiato spesso in Italia e all’estero. All’inizio in molti casi quando suonavamo noi le performance erano organizzate nelle sale più piccole e raccolte, con un pubblico giocoforza molto selezionato. Però, dopo un po’ di anni, ci siamo resi conto che quei non tantissimi che ci seguivano fin dal principio hanno iniziato a lavorare nell’interaction design o in campi simili anche grazie all’ispirazione arrivata dai nostri lavori.
In Otolab siamo in tanti, circa 15 persone, e ci sono state, negli anni, molte fasi diverse. Io sono stato molto attivo fino al 2010 perchè studiavo e avevo più tempo rispetto ad adesso; in seguito ho iniziato a prendermi più pause dal collettivo sia perchè per 7/8 anni la collaborazione mi ha assorbito tantissimo tra riunioni e laboratori, sia perchè mi sono un po’ stancato della formula ripetitiva dei festival di arte elettronica. Ad un certo punto inizi a sentirti un po’ come un cane ad un’esposizione e subentra la noia. Il Celeste Prize di Berlino è stata la frontiera: insieme a Fabio Volpi (Dies_) abbiamo prodotto LCM_ Campi Magnetici: un lavoro molto complesso, sia dal punto di vista compositivo che da quello tecnico. Abbiamo vinto il primo premio, e poi mi sono un po’ raffreddato. Continuo la didattica sull’arte elettronica, sia in NABA che altrove, ma la voglia di stare in prima linea per il momento mi è un po’ passata.