Tiziano Bonini è ricercatore presso l’Università IULM di Milano e autore radiofonico (Radio24). Tra le sue pubblicazioni, “La radio in Italia. Storia, mercati, formati, pubblici, tecnologie” (Carocci, 2013), “Così lontano così vicino. Tattiche mediali per abitare lo spazio” (Ombre corte, 2010), “La radio nella rete” (Costa & Nolan, 2006). Qui i suoi tweet.
Nel tuo libro “Così lontano così vicino. Tattiche mediali per abitare lo spazio” affronti il tema di come l’appropriazione dello spazio, da parte dell’individuo, sia cambiato in virtù della diffusione dei nuovi media, dalla televisione all’Ipod. Riflettendo sullo spazio più intimo, ovvero la casa, affermi che si è verificata una vera e propria frammentazione dello spazio domestico. La planimetria di una casa borghese ottocentesca è quella che chiaramente individua una separazione tra spazio pubblico (di rappresentanza) e spazio privato (camere da letto e bagno). Già l’avvento del televisore, come elettrodomestico, ha cambiato anche semplicemente l’arredo di quelle case, oltre che sfondare e dilatare lo spazio facendo entrare in casa propria immagini, notizie, etc.
I personal media hanno ridotto ancora di più lo spazio intimo e privato che, paradossalmente, ha le dimensioni millimetriche che separano gli auricolari dall’orecchio.
Ida Farè, nel libro “Nuove specie di spazi”, ritiene che “il vento delle tecnologie comunicanti (abbia) prodotto la caduta di molti muri. […] Tutto può essere visto, e gli arredi, le stanze, le cose, diventano “a vista”. […] Il loft è, prima ancora che una moda importata, uno stato della mente” (pp.6-7). Sei d’accordo con questa affermazione?
Personalmente sono d’accordo ed è anche quello che diceva Meyrowitz in “Oltre il senso del luogo”, scritto nel 1985, in cui affermava che la televisione, quando era arrivata nelle abitazioni degli americani, già negli anni ‘60 aveva reso trasparenti i muri di casa. E’ vero che le tecnologie della comunicazione hanno fatto crollare un muro dopo l’altro, sempre di più, fino a rendere tutto estremamente trasparente. Facebook ha reso la nostra pelle trasparente più che i muri degli spazi dove abitiamo. Una volta abbattuto qualsiasi muro, l’ultimo che resta da abbattere è quello della propria pelle. Con lo scandalo del “Datagate”, anche quando non lo sapevi, eri trasparente per il governo americano; quando si sente “yes we scan”, non si tratta solo di una battuta perché i nuovi media ti scannerizzano anche il corpo, che sembrava essere l’ultima barriera da rendere pubblica.
Quindi, parlando della casa come spazio dell’intimità, non ci sono più spazi fisici di questo tipo? Dove si può tutelare la propria privacy?
Ovviamente il singolo decide le proprie forme di esposizione: se sono a casa la sera e non accendo né radio, né computer, vivo come un lord del ‘700 a casa mia. La progettazione della casa, ad esempio, arriva fino ad un certo punto, nel senso che si progettano luoghi immaginandone degli usi predeterminati. Quando fai tua quella casa, la addomestichi in tutti i modi possibili e lì inventi degli usi che non erano nemmeno progettati dall’architetto: la fai tua nel senso che ci aggiungi del tuo, anche attraverso i media. Questo avviene se sei lontano dal tuo paese di origine. Se sono nato e vissuto nella stessa città e ho un’identità molto precisa e chiara, forse non ho tanto bisogno di costruire nella mia casa un altrove a cui tornare (il mio paese di origine). I media sono una delle possibili risorse per addomesticare lo spazio e per appropriarsene, anche se era stato progettato da qualcun altro.
Cito l’email di un ascoltatore della radio, che trascrivi nel tuo libro: “A volte un gesto, una postura dello sguardo, un odore, un suono, un sapore ci indirizzano improvvisamente verso l’immagine della casa abbandonata” (pag. 55). E’ un’affermazione in cui si capisce chiaramente che la creazione del legame con uno spazio è affettiva e sensoriale. Invece, nella progettazione architettonica vera e propria, spesso ci si è soffermati solo su aspetti funzionali, pratici, comunicativi, etc. dell’architettura e raramente su aspetti più sensoriali (suoni, odori, etc.).
Secondo te, i nuovi media possono contribuire ad arricchire l’esperienza dei luoghi, ovvero anche colmando delle carenze proprie degli spazi, permettendo delle esperienze paradossalmente più corporee? L’uso di nuovi media rappresenta un fallimento della progettazione architettonica?
Secondo me l’uso dei nuovi media, per rendere intimi gli spazi, non è un fallimento ma un completamento della progettazione. Laddove si ferma la progettazione, che è sempre incompleta nella misura in cui non puoi prevedere tutti gli usi, io addomestico lo spazio attraverso oggetti e pratiche affettive come, ad esempio, la cassapanca della nonna, etc. ovvero oggetti che, collocati nello spazio, lo rendono affettivo.
Quando accendiamo la radio o l’impianto hi-fi e sonorizziamo lo spazio con una musica che innesca dei ricordi o scatena delle emozioni, è la musica che rifunzionalizza gli spazi in senso affettivo, negativamente o positivamente. Lo stesso spazio acquisisce un’altra valenza a seconda dei media che uso e dei contenuti, ovviamente: sono i media che possono essere visti come completamento delle funzioni architettoniche e anche come riposizionamento e ribaltamento.
Se poi ti riferisci, ad esempio, ai muri della casa, non ben isolati, che fanno passare i rumori del mio vicino infastidendomi, se indosso le cuffie e ascolto musica per isolarmi, allora sì che in quel senso i media colmano un fallimento della progettazione. Effettivamente, anche quando mi trovo negli spazi pubblici, se gli urbanisti o gli architetti hanno progettato male quello spazio e mi è davvero difficile viverlo, mi difendo proteggendomi, attraverso i media, creando la mia capsula, bolla, la mia membrana protettiva (cocoon) indossando le cuffie, etc.
Pensavo ai busker e alla musica di sottofondo che viene imposta. C’è sempre l’idea che far sentire musica sia qualcosa accettato da tutti e che non crea problemi. Invece, secondo me, non è così, anche perché noto che i musicisti di strada o quelli che sono in metro, suonano molto spesso musiche tristi. Perché? Forse perché la musica triste è quella che commuove e che inevitabilmente ti porta a dare l’elemosina ai questuanti?
Certo! Ci sono due poli della musica nello spazio pubblico: la musica triste dei suonatori di strada che deve farti commuovere (e le canzoni più belle in effetti sono quelle tristi) e poi la musica negli spazi commerciali che, invece, è sempre e solo allegra perché ti deve invogliare al consumo. Sono due forme di imperialismo sonoro.
David Green, Living Pod, Archigram 7, 1966. Credit: qui
I progetti utopici degli Archigram, dalla Walking City alla Plug-in City e Capsule, alle singole unità abitative prefabbricate (Living Pod) che potevano spostarsi e connettersi alla struttura di cablaggio cittadina, denunciavano il desiderio di poter spostare la sede della propria casa in qualunque punto cablato della città.
I personal media hanno facilitato questa pratica? Mi riferisco all’affermazione paradossale di Silverstone secondo cui “la casa è “un luogo senza spazio”, immateriale, una disposizione d’animo più che una superficie geometrica” (pag. 70)
Sì, i personal media hanno realizzato queste utopie ma in maniera molto debole, transitoria e temporanea. Posso riuscire anche a portarmi la mia casa con me, per rendere “casa” uno spazio che non lo è o uno spazio pubblico in cui mi trovo, però è una pratica temporanea, dura finché, ad esempio, indosso le cuffie: la membrana è leggerissima, perché comunque ho il resto del mondo intorno a me. La mia capsula mediatica è fragile, mentre quella a cui pensavano gli Archigram aveva una valenza abitativa forte. I media creano l’illusione di casa, come il cinematografo che crea l’illusione transitoria.
I media sono mezzi che creano una addomesticamento dello spazio molto debole: l’effetto può essere forte a livello emotivo ma si tratta di delimitazioni dello spazio molto leggere e vulnerabili. E’ vero che attraverso i media si riesce a rifunzionalizzare gli spazi pubblici oltre che quelli privati, ma è un sentimento molto transitorio e leggero ed è un uso tattico: da una parte c’è la strategia dei pianificatori, dall’altra c’è la tattica, come tale temporanea, di chi si appropria, per poco tempo, di uno spazio pubblico ritagliandosi la propria bolla attraverso i personal media.
Qual è il ruolo della musica nel creare atmosfere che facciano “sentire a casa” e qual è il ruolo di media come la radio, la filodiffusione, le mood radio, l’easy listening, comunque i non personal media?
La musica è uno dei modi più profondi per creare atmosfere e per cambiare il mood degli spazi: è un mood controller. La radio è anche questo: i programmatori musicali oggi selezionano la musica in base al mood, ossia a seconda dell’umore che vogliono fare provare agli ascoltatori. Ogni musica è standardizzata e categorizzata in macrocategorie, dal mood più positivo a quello più negativo. In radio ci sono i programmatori musicali che, per professione, selezionano i brani musicali basandosi sugli arrivi dalle case discografiche, sulle nuove uscite, un po’ sul gusto personale e molto sulle ricerche di mercato che hanno testato le musiche, prima di essere pubblicate, su dei focus group.
C’è molta omogeneizzazione nell’ offerta musicale, soprattutto nel caso delle radio nazionali e commerciali. Nelle radio pubbliche, invece, c’è maggiore apertura per la scelta personale del programmatore oppure in base al tipo di contenuti o al tipo di pubblico. E’ importante sottolineare, tuttavia, che si è sempre liberi di spegnere la radio.
E’ molto diverso quando sono in un supermercato e non sono libero di spegnere la musica di sottofondo: non c’è niente di più aggressivo che il voler imporre uno stato d’animo che deve essere per forza allegro e volto al consumo quando tu, in realtà, non vuoi sentirti in quel modo.
Mary Douglas, antropologa, dice che “casa è dove riesco a tenere sotto controllo lo spazio”. Se estendessimo questa affermazione, casa è dove noi riusciamo a tenere sotto controllo lo spazio e il tempo. Se potessi avere il controllo della musica attorno a me, degli odori (vedi il marketing olfattivo), tutto ciò che non riesco a controllare e che potenzialmente mi irrita, mi fa sentire straniero e abbassa il livello di appartenenza a quel luogo.
Però, è così necessario sentirsi a casa in ogni momento e in ogni luogo? Se cerco di isolarmi nella mia bolla, mentre passeggio per le strade, perché il rumore circostante mi infastidisce, tuttavia devo riconoscere che comunque sono in un altrove, in un contesto abitato e vissuto anche da altri con cui necessariamente devo confrontarmi.
Certo, ma se vado a fare un viaggio in un luogo lontano e diverso dal quello di origine, sono io che cerco l’altro e so di avere un controllo relativo sullo spazio, su quando voler incontrare l’altro e quando tornare a casa. Invece, se mi trovo in uno spazio pubblico, ad esempio nella mia città, questo controllo, anche per fortuna, non ce l’ho e mi devo per forza confrontare con l’altro. Credo che ci siamo molto abituati a ripararci, per tenere lontana l’alterità. I personal media sono l’ultima tappa di questa volontà di addomesticare lo spazio, talmente tanto da cercare di tenere tutto quello che non ci piace fuori di noi. Il rischio è che più l’identità è forte più è refrattaria allo scambio. I migranti che usano i media per tornare al mondo da cui sono partiti, di cui parlo nel libro, li usano per isolarsi e per non confrontarsi con il mondo in cui vivono fisicamente.
Tu lavori alla radio ed è stato appena pubblicato il tuo libro “La radio in Italia. Storia, mercati, formati, pubblici, tecnologie“. Cosa pensi delle mood radio, di Spotify, di Last fm, di Pandora?
Penso che siano un’estremizzazione del concetto di playlist della radio. Addirittura, c’è uno studio che dimostra che gli stream di queste radio, una volta che introduci un tema, un brano o un artista, generano una playlist molto più stretta, in termini di ampiezza di scelta, rispetto alla playlist radiofonica. La mood radio è sicuramente meno generalista e più tematica della radio tradizionale e questo va incontro al bisogno di sentirsi liberi di scegliere solo la musica che ci piace. Indubbiamente, la radio si rivolge a migliaia di persone e tra di loro, statisticamente, ci sarà sempre qualcuno a cui non piace la programmazione. L’estremizzazione più assoluta di questo processo è una radio per ogni persona, ma l’effetto collaterale è una grande noia perché è tutto prevedibile e senza varietà. La mood radio può dare una maggiore soddisfazione iniziale, ma sono progetti che possono avere il vantaggio di rispondere ad una debolezza della radio tradizionale, ossia quella dell’eccessiva trasmissione generalista; poi, però ,il rischio è che, essendo la risposta così precisa, la programmazione diventa prevedibile e quindi noiosa.
La radio, secondo me, deve mantenere il ruolo di selettore e anzi deve prestare molta più cura nella selezione, così almeno si fornisce un filtro all’abbondanza. Oggi quel tipo di filtro lo trovo nei blog: i critici non sono spariti, ma si sono spostati dai negozi di musica per strada su internet.
Come vedi il futuro della radio?
Ogni paese ha un futuro radiofonico diverso dall’altro perché c’è chi ha già un futuro digitale e c’è chi, come l’Italia, forse non lo avrà mai. Sicuramente le radio musicali saranno sempre più incalzate dai servizi di streaming e, più che trasmettere musica, secondo me dovranno trasmettere contenuti e cultura intorno alla musica, sotto forma di nuovi format. Le talk radio, invece, credo che non moriranno mai. Può, forse, scomparire l’apparecchio radiofonico da casa, così come scompare la carta dei giornali. Penso che i contenuti testuali, le informazioni, le storie, la musica e l’intrattenimento attraverso l’audio e il video non moriranno mai e le forme che prenderanno sono imprevedibili.