Francesco Lucchese è architetto e designer. Ha al suo attivo numerosi progetti di interior design e di product design per aziende italiane ed estere. E’ docente presso la Facoltà di Design del Politecnico di Milano e il POLIdesign. Tiene regolarmente workshop e conferenze in Italia, Svizzera, Russia e Cina. Lascalalocation è sede del suo studio di progettazione oltre che spazio per eventi e meeting. www.francescolucchese.com
Secondo Gernot Böhme “la musica crea atmosfere”. L’ atmosfera è “ciò che si colloca tra le qualità ambientali e la condizione delle persone. (…) La sua particolarità e la sua difficoltà risiede nel fatto che si tratta di un’esperienza interstiziale. (…) Le atmosfere possono essere suggerimenti emotivi, ovvero come una tendenza a portarci in un particolare stato emotivo”.
Nella progettazione di un locale lounge quale funzione ha la musica? Pensi all’atmosfera sonora e musicale di un locale quando lo progetti?
“Atmosfera” è una parola straordinaria che racchiude sensorialmente più elementi. La definirei come l’insieme di colore, musica e struttura. C’è però un elemento fondamentale da sottolineare, ossia il grado di soglia. Nel caso di un locale lounge, il concetto di soglia è importante per dosare il grado di atmosfera, cioè se occorre renderlo un elemento preponderante oppure no, e per capire, quando si è fuori, se ci si vuole entrare per restare tanto o poco. Quindi, progettando un locale, è fondamentale immaginare che tipo di musica ci debba essere, perché fa parte dello stazionamento, ovvero della realtà di essere in un posto e di starci. Tuttavia, in merito all’atmosfera musicale, non credo che debba essere il tempo di permanenza a determinarne le caratteristiche, soprattutto al fine di rendere piacevole e vivibile un locale. Il silenzio di John Cage è una provocazione, ma è un dato di fatto che, spesso, non ci si ferma in un locale perché si è bombardati dalla musica assordante che ci fa scappare via.
L’attività musicale di un locale dovrebbe appartenere, subito e congiuntamente, all’arredo e quindi esprimere una sorta di aderenza e appartenenza a quello che viene espresso con il resto, ossia con i materiali, i colori, il cibo servito, etc. Questo perché sia l’arredo sia la musica appartengono alla storia e in ognuno di noi c’è una sovrapposizione di immagini, uditive e visive, che determinano la nostra capacità di riconoscimento dei luoghi. Ecco perché si può percepire una distonia in un locale in cui, ad esempio, tutto è in stile anni ’20 però viene diffusa la musica house.
Quindi, secondo te, ci dovrebbe essere coerenza tra il luogo e il concept?
Racconto un aneddoto. Ho tenuto una conferenza, qualche anno fa, a Sochi, luogo di vacanza russo. Era giugno, la temperatura era piacevole: c’era un grande camminamento lungo il mare con molti negozi e baracchini. Purtroppo c’era un effetto dodecafonico generato dal volume alto della musica che proveniva dai baracchini perché ognuno aveva collocato degli altoparlanti in prossimità dell’ingresso che, moltiplicati tra di loro, annullavano il rumore del mare, con il risultato di creare un’ atmosfera disturbata, di costringere i turisti a urlare per chiedere informazioni, etc. Riflettendoci, si trattava di un’atmosfera generata a tavolino ma che, anche pensando all’aspetto pratico, non era nemmeno funzionale allo scopo commerciale del luogo. Peraltro, non c’era nulla che potesse richiamare alla musica tipica; forse c’era qualche canzone pop russa, ma nulla di storico.
Quando si progetta un locale, come dicevo prima, è necessario prestare attenzione ad ogni dettaglio, compresa la musica, per creare la giusta atmosfera. Tuttavia, occorre pensare al contesto più in generale: il locale è sempre inserito in un luogo con cui deve dialogare. Per questo, la progettazione della soglia è cruciale. Nel caso di Sochi la soglia era un’anti-soglia, a causa di un rumore respingente.
Invece ci sono altri locali che resistono più per la loro storia che per l’atmosfera che attualmente hanno. Mi riferisco, ad esempio, alla “Capannina” di Forte dei Marmi, che ha segnato la storia della musica italiana degli anni ’60. Ci sono ancora molte persone che frequentano la “Capannina”, perché cercano un’atmosfera, quella degli anni d’oro, che però non c’è più. Il concetto di storia, di cui parlavo, qui è in essere ma, in questo caso, persiste l’immagine più che il luogo fisico. L’atmosfera, se si è capaci di crearla, sarà eterna e la si crea attraverso la sinergia di più elementi tra cui, da non sottovalutare, un tipo di pubblico e di clientela che agisce da detonatore.
Da un lato, quindi, un locale come la “Capannina” di cui restano indelebili la storia, l’immagine e l’atmosfera che oggi non si può più ricreare nello stesso modo e con gli stessi protagonisti degli anni ’60; dall’altro, un evento temporaneo, per esempio il rave party, che tuttavia spesso viene ricordato solo per ciò che succede, nel bene e nel male, nel breve tempo della sua durata. E’ come un’opera d’arte di Christo: il monumento viene impacchettato e poi, dopo un certo periodo, torna ad essere come prima dell’intervento. Le situazioni temporanee, che poi sono l’intrigante paradigma dei social network, possono essere uno dei modi per creare un luogo, nella speranza però che non diventino esperienze autodistruttive, così come talvolta i rave party o semplicemente un bar caratterizzato da una musica assordante che costringe a sostare per breve tempo.
Nella tua attività di designer, pensi a come suonerà un oggetto quando verrà utilizzato?
Quando posso sì, anche se, nell’ambito del design di prodotto, bisogna anche ragionare in termini di mercato. Penso comunque che si tratti di una questione di materiale. I materiali più stimolanti, sul piano sonoro, sono sicuramente il vetro, talvolta anche il marmo, ed evidentemente i prodotti scatolari, a tamburo. Nel caso di un progetto di interni l’attenzione cambia un po’ perché bisogna scegliere i materiali e immaginare come verrà usato quel luogo per capire l’effetto acustico finale.
Ci sono molte aziende che curano anche l’aspetto acustico dei materiali e degli oggetti che producono. Per esempio Barrisol, ad un certo punto, ha iniziato a microforare i pannelli migliorando le caratteristiche fonoassorbenti del materiale. Saint Gobain produce anche vetri che hanno una camera d’aria acustica, però il costo è notevole anche se in effetti le prestazioni del materiale sono elevate. Penso tuttavia che occorra non esagerare, per evitare di creare ambienti asfittici e alienanti come camere anecoiche.
In passato hai lavorato come dj: questa attività ha influenzato il tuo lavoro di architetto e di designer? Se sì, in che modo?
Aver avuto un’ esperienza come dj mi aiuta, ancora oggi, nel mio lavoro. Questo è dovuto al come si fa musica e al come si comunica con le persone senza parlare: bisogna intuire un linguaggio non verbale e anticipare i desideri. Le stesse dinamiche avvengono mentre si progetta, immaginando e tentando di capire cosa vuole una persona e, ancora di più, quando si crea un prodotto di design e si cerca di interpretare il mercato, le esigenze e le necessità dell’azienda, pensando che quel prodotto verrà utilizzato da un tipo di pubblico e in un certo modo; si entra nella testa, nel fare, nei costumi delle persone, quasi come fa un musicista.
Il lavoro di un architetto o di un designer è un lavoro creativo che però concretamente si confronta con delle necessità, ma quello che succede in un locale non è molto diverso, perché bisogna comunque far ballare le persone, farle bere, farle divertire, soddisfare loro e anche i dj. Ci sono, quindi, dei punti di contatto non trascurabili tra i due lavori e li rivivo mentre progetto. E’ un po’ come se fosse uno spot pubblicitario o la sequenza di un film: c’è una scenografia ma è necessario che ci sia anche una colonna sonora.
Non posso progettare senza pensare alla musica. Qualche volta, ad esempio, se stiamo progettando un bar, suggeriamo la colonna sonora che dovrebbe essere di sostegno; in alcune tesi di laurea, ho pregato gli studenti di realizzare una presentazione video che avesse anche un commento sonoro che fosse concretamente legato ai contenuti. Molto spesso, se organizziamo eventi, vorrei essere io a creare le basi musicali. Se progettiamo allestimenti fieristici per le aziende, mi offro sempre per selezionare le musiche di sottofondo in relazione alla fiera, all’azienda, al prodotto, etc. e quindi continuo a vivere la stessa situazione di quando lavoravo come dj, anche se in proporzione lieve. Mi dà molte soddisfazioni perché, se funziona, lo cogli. Quando realizzi un allestimento fieristico e vedi gravitare dentro le persone, che sostano e ci vogliono stare, succede anche perché la musica è quella giusta. Penso che per costruire un tappeto musicale si debba essere molto esperti e capaci: la musica è un elemento forte in un luogo, perché può fare ridere, piangere, emozionare in genere e, di conseguenza, può influenzare il nostro rapporto con lo spazio in cui ci si trova.
Joe Colombo, interno di appartamento a Milano. Credit: qui
Spesso, nelle scenografie, si creano scenari che rimandano a luoghi iconici legati all’intrattenimento delle persone. Un esempio chiaro è un interno progettato da Joe Colombo negli anni ’70, in cui in un ambiente domestico si trasportava l’interno di una discoteca.
E’ vero e, nel caso specifico del progetto di Joe Colombo, è dovuto al fatto che la discoteca, in quel periodo, aveva sempre un arredo di grande effetto, oltre che essere uno spazio in voga. L’arredamento dell’epoca era classico. Quello della discoteca era molto più informale e, in un certo senso, faceva sognare: quindi veniva presentato come scenario possibile perché era un’immagine forte con cui stimolare delle visioni. Ad esempio, se oggi si vuole catturare l’attenzione progettando un interno, non si ricorre ad immagini tipiche dei locali massificati, ma si ricorre ad ambienti come quelli di John Pawson o di Silvestrin, essenziali e quasi mistici.
Quindi, l’immagine della discoteca degli anni ’70 permetteva di proporre modelli forti, inusuali e di grande effetto; oggi prevale un’estetica più francescana, mistica, spirituale, all’interno della quale il prodotto viene valorizzato.
La scenografia di Joe Colombo, che trasportava in un interno quello di una discoteca, era anche un modo per creare scenari e, indirettamente, per proiettare in avanti la ricerca sul prodotto e per progredire. In quegli anni, se pensiamo all’Italia, i produttori della Brianza usavano essenzialmente il legno come materiale per realizzare gli arredi. Colombo riuscì a coinvolgere i produttori più lungimiranti a spingersi in avanti e ad osare, prendendo ispirazione da un luogo eccentrico come la discoteca. Si trattava di un allestimento fieristico all’interno di una fiera concepita in modo diverso rispetto ad oggi. Le aziende erano di meno, i padiglioni erano grandi e alcuni marchi più inclini alla sperimentazione mettevano in scena una sorta di installazione straordinaria, fuori target, che contribuiva a cambiare il gusto.
Gli anni ’70 vedono l’affermazione della discoteca e della disco music, soprattutto dopo l’uscita del film “La febbre del sabato sera” . Lo scenario della discoteca, che è anche una tipologia architettonica, viene ripreso in molti videoclip di quel periodo, come “Dancing queen” degli Abba o “Heart of glass” dei Blondie . Inoltre un programma televisivo come “Top of the Pops” in Gran Bretagna riproduceva l’ambiente della discoteca, così come “Discoring” in Italia. Il successo della discoteca, inteso come luogo, era legato alla musica e alle dinamiche che in essa si svolgevano. Secondo te, oggi c’è un luogo paragonabile a ciò che la discoteca e la disco music rappresentavano negli anni ’70 e ’80?
L’effetto forte della discoteca, che è durato nel tempo, si è spalmato e la sua immagine si è polverizzata. Io che ho vissuto gli anni di affermazione della discoteca e della disco music, se oggi dovessi pensare ad un luogo dotato della stessa genuinità, direi che non c’è. Se attualmente la volessimo reinventare non sarebbe facile perché, negli ultimi anni, c’è stata una moltiplicazione di eventi e di innovazioni (per esempio internet) e la velocità con cui le novità si diffondono è tale da non poter creare un effetto forte e duraturo che, invece, necessita di sedimentazione.
Oggi, con i cambiamenti che sono avvenuti e che hanno inevitabilmente influenzato ogni ambito, ci vorrebbe qualcosa in grado di concentrare tutto in un unico luogo, come avveniva all’epoca. A me, però, sembra molto difficile perché bisognerebbe mettere a sistema davvero molte variabili che, tra l’altro, si sono polverizzate e disperse. Quindi, o diventa un luogo elitario, e si sceglie di puntare solo su alcuni elementi indirizzati ad un preciso tipo di pubblico, oppure, se l’obiettivo è creare un luogo ampio e democratico, è più facile parlare di un grande concerto che è un tipo di evento più vicino a quella realtà. La discoteca, intesa come luogo chiuso alla maniera di “Saturday night fever”, è un’esperienza irripetibile in questo momento.
Ci puoi raccontare la tua esperienza come dj?
Era il 1979 quando i miei genitori, dalla Sicilia, decisero di trasferirsi nel Nord Italia. Mio padre era macellaio e aveva vissuto e lavorato molti anni in Venezuela. Era andato lì per cercare fortuna. Un giorno ebbe un’idea straordinaria: vendere i frigoriferi americani nei paesini venezuelani. All’inizio l’attività sembrava non ingranare, ma successivamente iniziò a diventare molto produttiva. Dopo quindici anni, decise di tornare in Italia con dei capitali da investire.
Racconto la sua storia perché credo che questa parte della sua vita abbia avuto profonda influenza sulle sue scelte lavorative successive. Mio padre, pur non avendo mai vissuto la balera, essendo in Venezuela per lavorare, si è trovato però a contatto con un paese dalla forte tradizione musicale. Ricordo ancora che, quando ero bambino, lui si divertiva a fare dei fraseggi in castigliano. Credo che lui abbia vissuto la necessità, come molti italiani emigrati all’estero, di appartenere ad un pezzo d’Italia, quello sintetizzato dalla “Capannina”. Quindi, dopo il trasferimento nel nord Italia, mio padre volle cogliere un’opportunità e decise di aprire una discoteca sul Lago Maggiore, a Luino. L’intuizione della discoteca fu giusta perché, una volta aperta, ebbe subito un grande successo, dovuto anche all’ambientazione con la pista da ballo sul lago, le due piscine, i campi da tennis e varie dotazioni che lo resero un locale molto frequentato. Fu anche un luogo molto noto e importante per la scena cabarettistica: vi passarono da Jannacci a Iacchetti, Massimo Boldi, Dario Fo, Renato Pozzetto e tanti altri. Mio padre ebbe anche l’intuizione di chiamare un dj importante e romagnolo, che aveva lavorato a Radio Lussemburgo, si atteggiava a santone e si vestiva in modo bizzarro creando il personaggio del dj fuori dagli schemi.
In quegli anni io studiavo Architettura al Politecnico di Milano. Avrei voluto essere, come tutti in quella situazione, il protagonista di turno della discoteca e invece mi toccava pulire, lavorare dietro il bar, seguire i corsi di barman, invidiando molto l’attività del dj. Mi piaceva fare il dj e cercavo di farlo nei giorni di chiusura della discoteca, di sera, esibendomi in presenza di un pubblico molto ristretto. Poi, qualche sera in cui il dj ufficiale non era presente, iniziai a suonare io, riscuotendo un certo successo tanto che mio padre iniziò a insospettirsi perché temeva che io lasciassi l’università. Su questo, quindi, mise un veto: tu non farai il dj. Ero molto combattuto perché addirittura, una sera, ebbi una proposta da parte di Radio Montecarlo, che mi proponeva un contratto per curare un programma di musica italiana della durata di due ore, offrendomi anche la casa a Montecarlo: significava mollare tutto e iniziare seriamente la carriera di dj. Ci fu una crisi familiare e raggiungemmo un accordo: avrei suonato per una sera nel suo locale, così da poter lasciare un giorno di pausa al dj ufficiale. Si trattava davvero di un compromesso perché mi toccava suonare nella sera del cabaret, o del liscio, in cui il dj serviva da riempitivo delle pause dell’orchestra o degli attori. Non ero per niente convinto e così, dopo un anno, decisi di andarmene e di iniziare la mia attività di dj, con la promessa che avrei continuato a studiare.
Continuai metodicamente a frequentare le lezioni a Milano, tutti i giorni regolarmente. Quindi ogni mattina prendevo il treno da Luino fino a Milano: erano 21 fermate di treno locale. La sera, alle sei, tornavo a Luino.
Ho iniziato in provincia ma, ad un certo punto, ho deciso di andare in Svizzera, a suonare a Locarno, Bellinzona, Ascona, Lugano, etc. iniziando a formare la mia attività. Contemporaneamente lavoravo in una radio e, nel frattempo, riuscii a laurearmi. Mentre affrontavo il primo lavoro come interior designer, per un anno lavorai anche come dj professionista. Pubblicai quella che in gergo è definita una “lacca”, ovvero un disco, e mi trovai di nuovo davanti al dubbio: dj o no? Il dilemma era ancora più forte perché iniziavano ad arrivare le offerte da parte di locali importanti o le proposte di stagioni estive in Emilia Romagna o in Sicilia. Però ciò significava che per tre mesi avrei lavorato tutte le notti con il problema di gestire anche lo studio di architettura. Gli eventi hanno deciso diversamente ma posso dire che, per me, il mondo della musica e del design si toccano e sono diventati una cosa sola.