Giannino Malossi è manager del consumo culturale e fashion. Ha contribuito a definire teoria e pratica del management nelle relazioni tra industria, moda, consumo culturale, economia e media collaborando con aziende di vertice della moda e del design (Pitti Immagine Srl e la Camera Nazionale Moda Italiana; Interaction Design Institute Ivrea, Vivienne Westwood, Paul Smith, Fortis Bank). Ha fondato e diretto (1995-2001) Fashion Engineering Unit, il primo Think Tank italiano di ricerca sulla cultura della moda, producendo grandi mostre e eventi che hanno posto le basi del recupero della Stazione Leopolda di Firenze. Collabora con istituzioni di rilievo come Triennale Milano, Biennale Venezia Progetti Speciali, The Art Directors Club New York, KAH di Bonn, Forum Design Linz. E’ Italian Editor delle riviste i-D Magazine e The Manipulator. E’ stato docente a contratto alla Facoltà del Design del Politecnico di Milano. Sono numerose le sue pubblicazioni tra cui “Volare: The Icon of Italy in Global Pop Culture“(Monacelli Press, 1999) e ” Fiorucci. Liberi Tutti” (Mondadori, 1985, rist. 2004). Qui maggiori informazioni sulle sue attività.
Vorrei partire da due film significativi per descrivere altrettanti movimenti musicali: nel 1977 è uscito “Saturday night fever” che sta alla disco music come il film “Jubilee” (GB, 1978) sta alla musica punk. Quali erano le caratteristiche di questi due movimenti e dei giovani che li seguivano, gruppi tra loro contemporanei ma che esibivano le proprie scelte musicali e di stile in luoghi fisici differenti (la discoteca e i locali underground)?
Questa domanda potrebbe riassumere la trama di un ipotetico B movie dal titolo “Disco contro punk nella jungla suburbana. Come siamo sopravvissuti tra Saturday night fever, Dickens e Debord“. Ti spiego perché.
Pur avendo tratti comuni in quanto sottoculture di consumo spacciate come profezie di progresso e coolness popolare, disco music e punk sono due fenomeni piuttosto diversi non solo dal punto visivo e dello stile (colori, lustrini e Dance contro Rock e creste da Moicano) ma anche nella genesi e nelle aspirazioni espresse, come si vede appunto nei film che hai citato. Quanto ai locali di riferimento, c’erano puzza di sudore, fumo e birra stantia sia in discoteca che nei locali underground. Questi, forse, un po’ più sporchi, soprattutto se autogestiti, ma in quegli anni in cui le Dark Room erano una cosa quasi normale a questi dettagli non ci si badava. Dopo un po’ e dopo una certa ora i locali si sono assomigliati tutti. Chi può dire, per restare a Milano, se il Plastic o lo Space Odessey erano locali punk o disco? E poi il ricambio e l’ibridazione delle tendenze era in realtà molto più veloce della cronaca sociologica dei rotocalchi di moda o di musica. In breve tempo sono nati miriadi di sottogeneri che si confondevano e si combinavano in modi continuamente diversi.
Se una distinzione esisteva, era piuttosto la distinzione tra locali che avevano una clientela più style-conscious, più colta e in genere anche più ricca, dove il gioco di relazioni tra le persone girava intorno alla presunta capacità di fare tendenza nello stile di abbigliamento e di “posa”, e i locali di periferia o di provincia, dove la moda dettava legge nel senso commerciale di conformismo banale. Ma su questa base che riproduceva i segni della secolare separazione tra città e campagna – e tra le classi di riferimento – poteva esserci conformismo disco e avanguardia punk, come pure il contrario. Diciamo che comunque lo stile disco è stato di fatto un po’ più incline alla diffusione commerciale e alla dimensione provinciale, potendolo definire mainstream.
Volendo semplificare, per quanto possa sembrare sorprendente, il punk in senso stretto, cioè quello apparso sulla scena londinese a metà anni ’70, ha avuto origini quasi familiari. Un prodotto in parte pensato al tavolino (di cucina) orientato da schemi di proto-marketing culturale giovanile ideati da Malcom McLaren, un ex studente d’arte dotato di una cultura media che in confronto allo zero intellettuale dei manager discografici lo faceva sembrare un genio. McLaren, qualche anno prima, era stato espulso dalla sezione inglese della Internazionale Situazionista, perchè sorpreso a guardare una partita di pallone in TV durante un week-end di studio con Debord e Vaneigem. Tutta la celebrata strategia di marketing di McLaren risulta essere, ad un esame più attento, un’ applicazione del concetto situazionista di detournament, ovvero l’utilizzo consapevole degli stereotipi e dei media di regime per veicolare contenuti deviati (detour) di senso, in modo da creare scandali e crisi mediatiche più o meno destabilizzanti.
Nella teoria situazionista, il Detournement costituiva una delle “armi della critica” che costituivano l’armamentario della liberazione del popolo. Nella versione di McLaren, tutto era basato sull’ideosincrasia di certi luoghi comuni diffusi nei media: per esempio, in TV non si devono usare parolacce per nessun motivo e invece tu dici la parolaccia peggiore che ti viene in mente, e così fai scattare lo scandalo e a cavallo di quello potrai godere di una certa notorietà.
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Malcom McLaren e Vivienne Westwood, ex insegnante e sarta in proprio, erano a quel tempo una coppia impegnata a mandare avanti una bottega di parafernalia rock, che cambiava spesso nome e “concept”, fatto allora originale e innovativo (Sex, Let it Rock, Seditionaries, Clothes for heroes ecc..). Un cocktail molto ben congegnato tra la galleria d’avanguardia, il laboratorio di sartoria con bottega, la trappola per turisti e la bieca cottage industry, ovvero il piccolo laboratorio artigianale, forma di micro-imprenditoria radicata nelle entità urbane britanniche dai tempi della regina Vittoria e di Dickens….
Il negozietto si trovava (e si trova ancora oggi come meta di culto per fashion victims) in fondo a King’s Road, zona soprannominata World’s End, da cui negli anni ’80 ha preso il nome la fashion brand della Westwood senza McLaren. Oggi World’s End è una global brand che firma profumi e collezioni d’alta moda, e Vivienne Westwood, giustamente, è la più acclamata celebrity della moda britannica. Il capitale ha abbondantemente recuperato le velleità rivoltose della generazione punk.
La biografia agiografica del punk è nota: gira tutta intorno alla vicenda dei Sex Pistols, prodotti da McLaren mettendo inseme quattro ragazzotti presi classicamente dalla strada (o dal Pub) che dichiaratamente non sapevano suonare ma costavano poco, un caso precoce di outsourcing.
Vivienne, nel retro della bottega, creava (e cuciva) i costumi di scena della band, che restano ancora oggi icone significative della cultura pop e della moda del periodo. Va considerato che le altre band punk sono state solo delle pallide imitazioni dell’originale, e del tutto prive di originalità sul piano visivo. Bisogna inoltre riconoscere che le creazioni di Malcom e Vivienne anche oggi, dopo più di trent’anni, hanno una carica semantica e uno spessore espressivo di alto livello che li colloca su un livello intellettuale superiore rispetto al generico mondo della moda, e li proietta tra gli artisti più significativi del loro tempo e contesto. Cosa che non si può dire di molti stilisti di moda che aspirerebbero a questo status.
Se l’operazione punk è nata con l’assemblaggio in vitro della band Sex Pistols vestiti alla rocker debosciato con filologia e taglio artistico-concettuale, gli ingredienti del fenomeno erano presenti nel milieu sottoproletario londinese e nel giro delle scuole d’arte, ambiente elettivo studentesco più o meno ribelle che avrebbe, di lì a poco, conosciuto Margaret Thatcher al potere, eletta Primo Ministro nel 1979.
Oggi il punk si può definire come primo antecedente e caso da manuale di guerrilla marketing.
Il film “The great rock ‘n roll swindle” di Julien Temple racconta molto bene come i Sex Pistols siano diventati famosi in brevissimo tempo con la loro prima canzone, Good save the Queen, riedizione blasfema dell’inno nazionale, fatta uscire nel culmine delle celebrazione per il Giubileo della Regina (1977). Come è noto, a causa del testo apertamente oltraggioso, la canzone dei Sex Pistols venne immediatamente censurata: una comparsata in un programma TV per giovani finita con la cacciata della band dallo studio e accuse di abuso sessuale da parte del presentatore sulle fan del gruppo proiettò la band sui titoli di prima pagina dei tabloid popolari.
Naturalmente lo scandalo mediatico, alimentato dalla stampa popolare e reazionaria a larga diffusione, ha avuto l’effetto di spaventare una dopo l’altra le tre case discografiche che, ossessionate dalla ricerca di ripetere i successi dei Rolling Stones e dei Beatles, avevano ingaggiato i Sex Pistols pensando di guadagnare in modo facile con la banda di scavezzacolli messi su da McLaren.
Ne è seguita una serie di rescissioni di contratto e successivi pagamenti di penali molto alte a favore del diabolico impresario e della sua band.
E’ così che i Sex Pistols sono diventati un mito per tutto il mondo giovanile leggermente ribelloide, perchè hanno guadagnato una cifra enorme di denaro senza praticamente aver mai suonato in pubblico. Il gioco era, in fondo, molto semplice: provocare i valori mainstream che orientano i contenuti dei media, e approfittare del grande scandalo per diventare prima famosi, poi ricchi.
Quando, invece, si parla di disco, si parla esattamente di un prodotto confezionato e promosso dal mondo delle case discografiche mainstream americane. Come dire, un autentico prodotto dell’industria culturale pesante. La disco music non ha un retroterra indie, è il suo contrario.
Saturday night fever (1977) è un film che racconta bene come, al di là dello stereotipo musicale, intorno alla disco music esisteva anche la dimensione sociale dell’ambiente proletario che l’ascoltava. Ma questo vale per qualsiasi prodotto di consumo di massa.
Vorrei ricordare un altro film, “Ballando ballando” di Ettore Scola uscito nello stesso periodo. E’ un film tutto musicale ambientato a Parigi che racconta la storia di diverse generazioni urbane attraverso le serate in un locale, ricostruito volta per volta a partire dalla musica, durante il corso dei decenni di attività. Si vede che negli anni la musica, l’arredo e le persone cambiano, ma il locale rimane sempre il punto di riferimento di una attività sociale che è il ballo che, a mio avviso, rappresenta la questione centrale.
In “Saturday night fever“, in “The great rock ‘n roll swindle” e in parte anche in “Jubilee” è evidente come sia il ballo a scatenare il desiderio e come la musica, lo stile di abbigliamento, il panorama visivo, l’arredamento del locale siano parte della stessa esperienza culturale, in cui il consumo ha un ruolo centrale, ma che contiene anche una dose di vitalità, di immaginazione e di sogno individuale e collettivo.
Visti oggi, si potrebbero considerare questi film, che in realtà parlano della società di allora, come reperti di un’ epoca in cui si cominciava a delineare quello che oggi è la dinamica interna dell’industria culturale aggiornata, cioè il coinvolgimento dei consumatori, la loro partecipazione attiva nella produzione di mode e stili di consumo.
Gli anni ’80, nonostante o forse grazie ai situazionisti deviati alla McLaren, sono stati in realtà gli anni in cui si è generato e ha fatto i primi passi il fenomeno del prosuming, cioè la confluenza, la caduta della separazione tra le figure del consumatore e del produttore. I seguaci delle mode sono i protagonisti, gli attuatori della creazione di stili e tendenze a cui devono fare riferimento le merci per essere consumate e quindi per queste merci, che sono le merci dell’industria culturale, il consumo coincide con la produzione.
Per tornare alla cronaca spicciola, in Italia il punk è sempre rimasto un fenomeno marginale, in un certo senso davvero rivoluzionario e underground, nel senso che non è mai uscito dalla marginalità e non ha preso neanche lontanamente sulla massa nè ha espresso grandi risultati artistici a parte i notevoli Skiantos, troppo autoironici per essere capiti del tutto. Freak Antony, un personaggio punk italiano davvero geniale come è forse l’artista più sottovalutato della storia culturale nazionale.
Invece la disco music, nell’italietta di provincia abituata alle mediocrità musicali, è piaciuta molto e ha avuto un gran successo, come era previsto, potendo godere di un apparato organizzato per la promozione su tutti i media, in particolare le radio e TV private commerciali che si stavano sviluppando nello stesso periodo. La disco music è stata la cifra sottoculturale delle radio commerciali che, nel precotto industriale delle compilation fornite dalle major discografiche americane, hanno trovato una direzione culturale che altrimenti non sarebbero state capaci di esprimere da sè.
Chiaramente, quando nelle discoteche la febbre sale, ci sono la musica a volume alto, il ritmo e i corpi che ballano, le osservazioni sociologiche, economiche e culturali perdono consistenza. Nessuno all’epoca, entrando in una discoteca, stava lì a decostruire l’ambiente e il fenomeno per decifrare il bieco contenuto di sottoprodotto culturale trash. L’atteggiamento prevalente del frequentatore di discoteche era simile a quello dei visitatori di parchi di divertimento che amano trovarsi in un ambiente artificiale, diverso da quello dove si vive la vita reale, ma non veramente lontano da casa, un luogo di azione stereotipato dove la musica commerciale fa da sottofondo ad uno spiazzamento moderato, una iperrealtà sotto controllo.
Sia il punk che la disco music, comunque, proponevano immaginari rivolti alle classi popolari, come si vede nei vari film citati.
Sì, si tratta di consumo popolare, o Pop come è di moda dire. A quel tempo esisteva una classe media che pensava di poter aspirare a prodotti un po’ più eleganti e per loro esistevano prodotti di consumo culturale leggeri, con un certo retroterra letterario e artistico, si pensi alla grande canzone italiana. Ma la discoteca veramente disco, in tutto il mondo in ogni modo, si candidava a rappresentare anche la tendenza alla modernizzazione del consumo medio-signorile. Esistevano discoteche dove si poteva spendere anche molto per entrare e per bere, situati in contesti di lusso, nelle più rinomate zone balneari e nei quartieri eleganti delle città davvero grandi. Tutta la saga dei socialisti socialmente rampanti degli anni ’80, alla Gianni De Michelis, hanno avuto la discoteca come ambiente di sfondo. Anzi, ne hanno fatto una specie di logo. Un mondo arrivista e abbastanza disinvolto rispetto all’esibizione di Rolex e agli abiti firmati, che ha fatto da apripista alla grande stagione berlusconiana.
Si può dire che il mondo punk aveva, al contrario, lo stesso gusto looser che si ritrova ancora oggi negli attuali centri sociali: gli stessi riferimenti stracitati e fin troppo autoevidenti e compiacenti, presi dal classico immaginario maschile e femminile della ribellione versione Rock’n’Roll, già delineato fin dai tempi di “Gioventù bruciata” e de “Il Selvaggio“, un film con Marlon Brando dei primi anni ’50, in cui si vede una banda di motociclisti vestiti in jeans, borchie e giacche nere di cuoio, distruggere un piccolo paese californiano di gente per bene, in preda all’alcool e alla droga…Tutto il contrario dell’atmosfera della discoteca, il cui sottotesto in fondo è sempre stato “in discoteca ci si diverte, si balla e non si fa politica” (magari poi nei bagni il discorso era diverso). Ma più o meno tutti sapevano che nelle discoteche confluiva una parte dell’economia nera, investimenti con un profilo poco trasparente, e alcolici di qualità molto discutibile.
Ci potresti raccontare l’esperienza con Vivienne Westwood e Malcom Mc Laren? Dove e come vi siete conosciuti?
Li ho conosciuti quando mi sono trasferito da Milano a Parigi assieme ad un mio collega con cui lavoravo da Fiorucci, nella fase in cui l’azienda era stata acquistata da Benetton. Fino a qualche mese prima, Fiorucci Spa era in parte di Elio Fiorucci e in parte della Montefibre (Montedison), una grande corporate italiana. Nel 1980 la Montefibre vendette la sua quota azionaria ma prima, per pareggiare il bilancio, decise di licenziare il nucleo creativo della Fiorucci, decapitando il vero capitale culturale che aveva in mano.
Io cercai altre attività e, insieme al mio amico, fondai una brand: “Casanova. Genialità italiana in tempi turbolenti“. In quegli anni era da poco uscito un libro di Peter Drucker, il guru del management, “Dirigere in tempi turbolenti”: Drucker era un famoso teorico dell’organizzazione aziendale e la fine degli anni ‘70 era considerata una fase molto critica a livello economico. Con questa brand andammo a Parigi perché avevamo avuto già notizia della Westwood e di McLaren e del loro negozio, “Seditionaries”. Avevamo il nostro “quartier generale” presso il ristorante di un mio amico, legato alla discoteca “Le Bain Douche”.
Incontrammo Vivienne e Malcom una sera dell’inverno del 1980, dopo che avevano presentato una sfilata. Ci presentammo come due manager italiani che avevano contatti con aziende italiane interessate a produrre i talenti creativi della moda inglese. Iniziò così e, per quanto riguarda me e per le mie esigenze, la collaborazione durò un paio di anni; il mio collega, invece, vi rimase e tuttora lavora da Vivenne Westwood.
Il programma di “Casanova”, in effetti, si è pienamente realizzato perché la più importante stilista inglese in realtà è una brand praticamente italiana, per quanto riguarda la gestione e l’organizzazione dal punto di vista industriale; la sede creativa e la base finanziaria invece sono a Londra. L’esperienza “Casanova” ha funzionato, anche perché si trattava di applicare la lezione di Fiorucci, ossia mettersi in contatto, scovare e trovare talenti interessanti e inserirli in un contesto economico.
Tornando ai riferimenti visuali e al modo di vestire, il punto di riferimento per i punk erano Vivienne Westwood e Malcom McLaren, invece chi frequentava le discoteche quali modelli aveva?
Per un certo periodo, dalla prima metà degli anni ‘70 ai primi anni ’80, Fiorucci è stata la brand globale della moda disco, anche se in realtà, soprattutto all’inizio, aveva una carica sovversiva abbastanza forte e una discendenza Beat sottotraccia: gli abiti di Fiorucci, troppo colorati e troppo esibizionisti, sono sempre stati considerati scandalosi e oltraggiosi dalla massa ben pensante, sia in Italia e forse ancora di più negli Usa.
Pochi anni prima che in Gran Bretagna venissero censurati i dischi dei Sex Pistols, in Italia erano stati sequestrati i poster e gli adesivi Fiorucci che ritraevano donnine vestite con poco. Anche questo alla fine ha funzionato come guerrilla marketing, facendo aumentare la popolarità della brand Fiorucci, ma posso dire con certezza che l’effetto non era stato programmato da nessuno. I sequestri e i processi per oscenità sono arrivati da soli, su denuncia di singoli pretori o cittadini scandalizzati. Semplicemente, la sensibilità di autorità costituite, circoli tradizionalisti e altre espressioni tardive della conservazione, era stata toccata dall’esuberanza ammiccante dello stile Fiorucci. Non era lesa maestà, era sincera preoccupazione per il senso del pudore messo a rischio dalla moda del momento, che rischiava di confondere le menti (e i corpi) di tanti giovinetti e giovinette.
In “Disco music. Guida ragionata ai piaceri del sabato sera” (Baroni S. – Ticozzi N., Arcana, Roma, 1979) si legge che “ognuno oggi, in ogni discoteca, si vive come una star. Migliaia di giovani, uomini e donne, hanno gli atteggiamenti, gli abbigliamenti, la pettinatura, le droghe, il magnetismo personale e la storia di una star. (…) E mai nella storia della musica leggera abbiamo assistito a un tale assortimento di esibizionismi fra i consumatori” (pag. 33). Sono i consumatori di musica o la moda a creare le tendenze?
Né la moda né la musica prese isolatamente. Questo è il punto debole di tutte le ricostruzioni storiche grossolane e dei tentativi di analizzare questi periodi che partono da punti di vista limitati da presupposti para-disciplinari: i musicisti raccontano che la musica è stato l’elemento più importante, chi si occupa di moda racconta la storia della moda privilegiando la propria ottica. In realtà le tendenze del consumo giovanile di allora erano frutto della confluenza di più elementi che insieme partivano dai corpi delle persone e dalla propensione verso il godimento abbastanza naturale nelle giovani generazioni, per la prima volta non troppo ostacolato da educazioni rigide e penuria economica.
Per capire realmente cosa è successo negli anni ’70 e ’80 bisogna leggere Lacan, che meglio di tutti ha definito e ha riflettuto intorno ai concetti di godimento e desiderio. Ed è importante considerare il cambiamento delle condizioni materiali in tutto l’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Quello che è successo negli anni ’70 e ’80 è stato il culmine dell’economia politica del consumo accessibile, che si può far risalire allo sviluppo economico degli anni ’50-’60-’70 sulla scia della ricostruzione e poi della relativa diffusione di un certo benessere, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il benessere materiale del dopoguerra, nel mondo occidentale, aveva creato le condizioni per un atteggiamento nuovo: i giovani dell’epoca erano i protagonisti dell’irruzione del desiderio negli avvenimenti quotidiani. La musica, la moda, la discoteca, il modo di incontrarsi, le cose che si facevano una volta incontrati (sesso piuttosto libero) sono stati il compimento di questa grande spinta verso la liberazione del desiderio e dalla prospettiva facile della sua realizzazione.
Con la tipica superficialità che tende a scambiare il sintomo con la causa, capita spesso di sentire raccontare che i cambiamenti di stile siano partiti dall’invenzione della minigonna. In realtà è l’esatto contrario, nel senso che la minigonna è l’effetto del desiderio, ovvero della voglia di mostrare le gambe o di guardarle, di toccarle magari. Anche la musica di quegli anni rimanda a queste conclusioni: mi viene in mente “Let’s spend a night together” dei Rolling Stones e i testi di molte altre canzoni sia rock che disco. Inoltre la disco music, non va dimenticato, è fortemente influenzata dalla sua discendenza dalla cultura funky, che rimanda alla cultura nera, dove la presenza del corpo, del desiderio, a partire dal movimento e dal ritmo è sempre stata molto forte (si vedano i clip delle prime esibizioni di Tina Turner e le sue Ikettes per farsi un’idea….).
Io ero adolescente negli anni ’90 che era il periodo del grunge, molto ben definito sia come musica sia come stile di abbigliamento. Poi, forse io mi sono disinteressata, ma non mi sembra che dopo gli anni ’90 ci sia stato questo legame forte tra moda e musica.
Non credo che oggi ci siano delle forze propulsive o altri movimenti con una grossa capacità di traino e di influenza, anche soltanto dal punto di vista visuale, come non c’è grande originalità musicale emergente. Questo dipende anche dal fatto che la società del desiderio è finita con la reazione globale: ricordiamo che negli anni ’80 arriva al potere in Occidente la troika Tatcher-Reagan-Wojtyla; dall’altra parte c’era l’URSS di Breznev. E’ successo altre volte nel corso della storia: ci sono delle spinte propulsive verso la rivoluzione e, dall’altra, c’è una reazione ben organizzata, dotata di mezzi e capacità per portare a termine i propri progetti di società e cultura. Se vince la reazione c’è la glaciazione politica e culturale che, almeno dagli anni ’90, è la condizione in cui stiamo vivendo, dal punto di vista espressivo, visionario e artistico.
Ormai, a parte le nuove tecnologie e i nuovi media, a livello segnico e perfino artistico non c’è altro che un continuo revival, una stanca ripetizione che sta diventando rituale, senza neppure la vaga sensazione che si potrebbe in fondo aspirare a qualcosa di più delle icone trite e ritrite. La macchina culturale e mediatica che confeziona stili, tendenze, musica e moda e arte è molto più perfezionata che negli anni ‘70/’80 e, come si diceva prima, ha imparato a utilizzare gli stessi consumatori come protagonisti della produzione dei loro prodotti di riferimento. Anche questo, secondo me, è un tratto della politica del biocapitalismo. Da questa macchina di produzione del simbolico pubblico non si scappa, non c’è neppure la vaga idea della rivolta che i punk, illudendosi, credevano di esprimere. E lo stesso consumo mainstream è diventato un panorama infinito di icone più o meno intercambiabili, dove uno stile vale l’altro, e tutti concorrono a costruire un’ identità media fatta di stereotipi culturali che sono in realtà dei modelli di consumo, tutti iscritti nel modello dominante e, in definitiva, suoi complici.
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Nello stesso libro, prima citato, sono riportate alcune interviste ad adolescenti milanesi a cui si chiedeva se conoscessero la disco music e se frequentassero la discoteca. Una ragazza risponde così: “oggi le discoteche vengono sempre più spesso paragonate a un luogo dove si spaccia droga, dove c’è la delinquenza; e chi ci va deve essere un fioruccino, uno cioè che si veste da sballo, invece questo può essere vero solo in parte” (Patrizia, pag. 90). Chi era il fioruccino e cosa rappresentava, in quegli anni, vestirsi con abiti Fiorucci?
Il consumatore attratto dalla brand Fiorucci è stato il primo consumatore di moda giovanile consapevole, ovvero una persona che si affida ad un marchio da indossare per costruirsi un’identità; questo era il senso della canzone “He’s the greatest dancer” delle Sister Sledge che spopolava nelle discoteche in tutto il mondo alla fine degli anni ’70: “He wears the best designers: Halston, Gucci, Fiorucci”. Il commento della ragazza citata nel libro di cui parli tu si riferisce, secondo me, all’apparizione del consumo delle brand che sicuramente ha avuto il suo terreno d’origine nella cultura della discoteca. Questo mondo che si raccoglieva davanti alle vetrine di Fiorucci non era costituito da bande giovanili tipo i punk, che invece sono più assimilabili ai giovani dei centri sociali. Un centro sociale è un luogo di creazione di un’identità presunta alternativa che si definisce in quanto contraria all’ordine delle cose correnti.
Invece, i giovani si incontravano davanti alle vetrine di Fiorucci semplicemente perché quello era un punto di riferimento geografico per la città, però di quella che non aveva conflitti con nessuno, se non con la tradizione clericale che in Italia è sempre stata molto forte. Il massimo oltraggio che potevano proporre i consumatori di Fiorucci era quello di vestirsi con colori squillanti, invece del grigio, e di indossare delle gonne più corte rispetto al solito.
Nel negozio Fiorucci di via Torino c’era anche un dj. Perché? Che significato aveva la musica nell’identità del marchio e del lifestyle Fiorucci?
La continuità tra la moda, la discoteca, la musica e i corpi era, come dicevo prima, evidente e naturale, tutto era unito e conseguenziale: erano delle emozioni, delle aspirazioni e un linguaggio complessivo che si esprimevano in diversi modi, ma la sorgente era la medesima. Non si può ricostruire il fenomeno partendo dai piccoli dettagli trattandoli in modo separato uno dall’altro. Da un po’ di anni a questa parte si tende a voler separare fenomeni le cui diverse manifestazioni (musica, moda, costume, etc.) in realtà sono unite e integrate reciprocamente. Bisogna decolonizzarsi dalla storiografia del nulla e guardare i fenomeni in maniera più complessiva e interconnessa.
C’era anche un limite tecnologico: oggi si può creare una playlist e farla scorrere durante tutto il giorno senza preoccuparsi di cambiarla. Negli anni ’70 bisognava registrarla su nastri, cambiarla di volta in volta, quindi era più semplice avere un dj che in tempo reale cambiava i dischi e faceva ascoltare le novità. L’unico vantaggio della registrazione era quello di poterla ripetere più volte ma, in effetti, non era nemmeno necessario registrare una playlist, perché essendoci un continuo afflusso di novità, sempre riferito al desiderio di cambiare, di continuare, di piacere, la registrazione costava tempo e non durava abbastanza perché diventava subito vecchia. Quindi il dj era una macchina analogica per continuare a tenere il passo con le novità. Da quando esistono i sistemi digitali è tutto più facile e non c’è bisogno del dj: ci sono le playlist che sono un po’ la morte culturale della musica pop.
I “Sex Pistols” si vestivano con ciò che era venduto da SEX e potrebbero essere considerati come testimonial di un “marchio” di moda. Tra McLaren-Westwood e i Sex Pistols c’era lo stesso rapporto che oggi c’è tra le più note pop star e le grandi aziende di moda ?
Oggi è diverso, perché all’epoca del connubio Sex Pistols/McLaren-Westwood si trattava di persone alcune delle quali suonavano e altre disegnavano e realizzavano i vestiti, che erano i costumi di scena e i componenti fondamentali di una band icona che ha avuto successo con la musica e con la storia che aveva alle spalle. Tutto questo nasceva in una dimensione che, come dicevo prima, non era molto diversa da quella del gruppo di avanguardia: la Westwood e McLaren non erano una società economica, ma erano studenti d’arte che avevano creato un’attività per potersi esprimere.
Le sponsorizzazioni o le partecipazioni tra brand di moda e celebrities musicali oggi sono il fondamento del marketing dell’industria culturale. Si tratta sempre ed esclusivamente di operazioni che avvengono attraverso agenzie specializzate in brand management o nel management delle celebrities, e hanno fin dall’inizio un piano finanziario e contratti da rispettare: non si tratta neanche lontanamente dello stesso fenomeno. La storia del rapporto tra punk e Westwood è ben diversa da ciò che succede tra band di oggi e marchi di moda. La Westwood cuciva i vestiti da sola e nel retrobottega, spinta sinceramente da una forza propulsiva di desiderio e di godimento reale, e il motivo per cui ha avuto un riconoscimento universale è legato al fatto che le persone intuiscono e percepiscono questa genuinità.
Da quella volta non ci sono mai state altre operazioni, nell’industria culturale, che hanno potuto godere di questo ritorno e di questa trasmissione di contenuti veri. Ancora oggi l’industria culturale, cioè le grandi case discografiche o le grandi brand di moda, è in qualche modo costretta o a inventarsi fenomeni che non è quasi capace nemmeno di immaginare, oppure a ricostruire artificialmente il passaggio di cui abbiamo parlato. Così inventano il vestito per Lady Gaga, il bustier di Gautier per Madonna, etc. che sono tutti tentativi di dare contenuti ad una storia che contenuti non ha. L’esperienza della Westwood, nata in ambito underground, è poi cresciuta ed è diventata il brand globale che tutti conosciamo, ma ci sono voluti almeno circa quindici anni di duro lavoro per raggiungere questa posizione. Oggi, le brand globali non hanno alcuna intenzione di trascorrere anni di sangue e sudore per costruire un luogo di avanguardia.