Ambrogio Cozzi, psicoterapeuta, è membro effettivo della Scuola Europea di Psicoanalisi. Ha lavorato per molti anni in U.s.s.l. della Lombardia, in servizi per le tossicodipendenze, consultori, servizi psichiatrici, servizi per minori e per disabili. Attualmente lavora presso il Servizio di psicologia clinica dell’Azienda Ospedaliera “Guido Salvini” di Garbagnate Milanese. Ha collaborato con la cattedra di Psicologia sociale del corso di laurea in Psicologia dell’Università di Padova. Ha insegnato Metodologia della ricerca in psicologia e Clinica delle tossicodipendenze all’ISFOS di Noventa di Padova, istituto di formazione post-universitario. Ha svolto attività di supervisione clinica in comunità per tossicodipendenti, centri socio-educativi, organizzazioni di volontariato, strutture educative per minori.
Cos’è la voce, sul piano psicoanalitico?
La voce rientra negli oggetti psicanalitici fondamentali individuati da Lacan che sono quattro: la voce, lo sguardo, il seno e le feci. Il seno e le feci sono mutuati direttamente da Freud, e sono gli oggetti che una persona incontra.
Lo sguardo e le feci mettono in relazione il soggetto con l’altro: lo sguardo è quello del riconoscimento e le feci sono intese come dono, o comunque come un oggetto che viene ceduto.
La voce e il seno, invece, riguardano più intimamente la costituzione della soggettività, nel senso che sono oggetti che appartengono all’altro e che io prelevo per costruire la mia soggettività. Ad esempio, il bambino che piange o che grida ha bisogno di qualcuno che interpreti quel messaggio. Il ritorno avviene attraverso sia i gesti di cura sia attraverso una voce, che non è ancora un linguaggio ma, in quel momento, è ancora un suono puro. Questo oggetto, che ritorna dall’altro, è uno degli oggetti psicanalitici fondamentali, che successivamente si ritrovano in forma disancorata dalla loro origine nelle relazioni che intratteniamo da adulti.
Ad esempio, lo sguardo è quello con cui cerchiamo il riconoscimento: cerchiamo lo sguardo dell’altro che ci dica “sei tu”; la voce è quella che ci accompagna come suono e che poi sappiamo riconoscere nel timbro di una persona che incontriamo: tutti gli oggetti che ritroveremo nella vita adulta sono una ripresa di quelli che abbiamo incontrato nelle prime fasi della nostra vita.
L’udito è uno dei primi sensi sviluppati dal feto. C’è la possibilità di una memoria e di una relazione tra i suoni ascoltati in fase intrauterina e le reazioni a certi suoni, una volta nati?
Sì perché, per quel che se ne sa oggi, il feto sente i suoni che, tra l’altro, gli arrivano in forma attutita attraverso il liquido amniotico, creando la memoria di qualcosa che è accaduto e che ha percepito. Tra la percezione e la sensazione c’è una grossa differenza, perché la percezione comporta l’elaborazione per inquadrare e sistemare quello che noi percepiamo: c’è un lavoro attivo, da parte del soggetto, di costruzione e di collocazione (cos’è, cosa non è).
I parametri di solito usati per individuare un suono sono la frequenza, l’intensità e il timbro. Se la frequenza e l’intensità sono definiti in modo inequivocabile, il timbro dipende dalla forma dell’onda sonora e anche dalle caratteristiche della sorgente che emette il suono.
La nostra voce, il timbro che individua ogni persona, dipende solo dalla conformazione delle corde vocali?
No perché, se pensiamo anche alla nostra vita quotidiana, succede quasi di impostare il timbro di voce: quando si parla con una persona, vogliamo che il messaggio giunga in un certo modo. E’ quel “certo modo” a segnare lo stile individuale e, quindi, non solo il contenuto ma anche la forma con cui tendiamo ad arrivare all’altro.
Quando un individuo urla perché sta litigando, è dovuto al fatto che gli è sfuggito il timbro e qualcosa è stato più forte di lui, lo ha spossessato del controllo. Pertanto, in un certo senso, il timbro viene gestito a metà: c’è una sorta di desiderio di controllare come noi arriviamo all’altro, ma talvolta ci sfugge qualcosa di inconscio (“è più forte di me”), e quindi non sempre riusciamo a dominarlo. Anche se sfugge al controllo, tuttavia, il timbro veicola un contenuto: Jacobson parlava della funzione “fatica” del linguaggio, ovvero qualcosa che noi sovraimponiamo perché vogliamo che arrivi al destinatario in un certo modo.
L’apprendimento della lingua, da parte di un bambino, è prima di tutto sonora. Come avviene, più in generale, il processo di collegamento tra significante e significato?
E’ un discorso lungo che cercherò di sintetizzare.
Il rapporto tra significante e significato ha un carattere arbitrario; è come il fronte e il retro di qualcosa: come si fa a distinguerli? Chi decide qual è il fronte e qual è il retro? Questa arbitrarietà comporta l’esigenza di porre un punto all’origine: esso viene posto come il significante primo, che rimanda a tutta la catena significante e che assume rilievo e valore solo in relazione ad essa. E’ lo scorrimento della catena significante a diventare fondamentale: è suono, però anche quel suono assume valore in mezzo ad altri suoni. E’ questo che ci fa dire che l’uomo è immerso nel linguaggio perché, nel momento in cui un individuo dovesse uscirne, non potrebbe vivere più in mezzo agli altri, perché non sarebbe più in grado di parlare.
Pensiamo a come noi costruiamo il linguaggio. Ad esempio, all’inizio l’acqua è un suono puro; si pronuncia un suono, “acqua”, per dire “voglio dell’acqua”: si tratta di una sorta di olofrase, in cui la frase viene compattata tutta intorno a quell’unico suono (acqua). In casi patologici, il soggetto rimane fermo all’olofrase, ossia non riesce ad articolare il discorso e la frase non assume una forma che permette un’evoluzione anche del soggetto stesso. Questo succede anche perché il limite dell’olofrase è che comporta sempre la presenza dell’altro che interpreta: mentre il linguaggio dà la responsabilità al soggetto di esplicitare la domanda, invece nell’olofrase la domanda deve essere indovinata. Siamo al livello del grido, per certi versi. E questo percorso è quello che ci porta a poter parlare, a poterci dire nel mondo in cui siamo; invece nelle patologie, in merito all’olofrase, si trova un significante singolo intorno al quale spesso ruota tutta la vita del soggetto psicotico.
Il linguaggio viene quasi inventato dal soggetto psicotico che si esprime con dei termini che non vogliono significare nulla perché l’arbitrarietà tra il significante e il significato viene portata all’esterno e viene sganciata, nel senso che non c’è più la collocazione del suono all’interno della catena significante.
Ad esempio, un ragazzo autistico, che è mio paziente, inventa proprio un linguaggio. Lui dice: “blatuato”. “Blatuato” non esiste e non ha un corrispettivo significato, ma per lui è puro suono e riesce anche a riderci sopra. “Il pullman è blatuato!” non si sa cosa voglia dire ma a lui piace il suono. D’altra parte lui, quando interviene un rumore improvviso, ride. Quel riso è il tentativo di uscire dall’imbarazzo che la sorpresa ha provocato: è intervenuto un rumore che ha interrotto un ordine. Ma l’ordine è individuale, non sociale.
Tutto sommato, quando noi entriamo nel linguaggio, entriamo in un discorso sociale; per lui, invece, il linguaggio porta all’estremo l’arbitrarietà, può inventarlo, è tutto suo ed è scollegato dall’interpretazione perché è puro suono. Quel che piace è l’elemento sonoro e lo si vede quando il soggetto parla il suo linguaggio, perché è preso dal suono, sganciato da qualunque riferimento con il mondo. L’autistico è il soggetto in cui il rapporto con il mondo è disordinato: egli ne è invaso e non c’è posto per stabilire una relazione con ciò che lo circonda che, per esempio, può avvenire attraverso il linguaggio, ovvero un modo per mettere ordine. Il mondo lo invade al punto tale che l’unica forma di godimento che il soggetto trova è nel suono puro. “Blatuato” è suono puro, non è interpretabile, non può essere messo in ordine.
Questo fa riflettere anche sul fatto che il suono puro non può cogliere il mondo: il suono coglie il mondo quando si lega al linguaggio, ossia quando riceve una forma. Il suono in assenza di una forma, puro timbro, non raccoglie nulla, è perso nel mondo.
C’è il caso di un soggetto psicotico, mio paziente tempo fa, che è partito per un viaggio in un paese straniero e lì ha avuto uno scompenso gravissimo, perché tutto gli giungeva come puro suono e lui non sapeva più ritrovarsi: si era perso e viveva un senso di smarrimento per la mancata comprensione e soprattutto per la rigidità, per lui, del legame tra significante e significato.
Che funzione ha l’onomatopea?
L’onomatopea, per esempio, c’è nel linguaggio autistico. Tuttavia ripete il puro suono e non viene usata come rappresentazione di qualcosa, o meglio, questa rappresentazione è presa meccanicamente da un accaduto. Nell’onomatopea, comunque, c’è un tentativo di mettere in ordine ma, nelle patologie più gravi, i disturbi del linguaggio sono al limite dell’incomprensibile, perché non si riesce ad inserire una legge sul suono: non c’è un linguaggio ma emissione di suoni puri.
Vorrei riflettere sul suono, poesia e tradizione orale.
Tempo fa leggevo un testo di Ezio Raimondi che analizzava una serie di poesie di Eugenio Montale. In particolare, ne ricordo una: “Spesso il male di vivere ho incontrato”. Ciò su cui lui insisteva era il ritorno di certe consonanti, vocali, etc. manifestando un attento studio sul suono. Oggi credo che le poesie non le legga più nessuno, purtroppo, ma il loro posto forse è stato preso dalla musica dei cantautori. L’accentazione, le vocali lunghe, le parole vengono sottolineate dall’intervento musicale che può essere coincidente o stridente e poi, come la poesia, le canzoni ruotano intorno a certi temi ricorrenti.
Per esempio, in “The wall” dei Pink Floyd c’è l’impossibilità del rapporto con l’altro che viene sottolineata attraverso una musica che diventa impedimento all’accesso. Quindi, credo che ci sia una riproposizione di alcuni temi che erano propri della poesia e che adesso si riversano nella canzone d’autore. Tra l’altro si tratta anche di un ritorno alla tradizione orale perché le canzoni, nuove forme di poesia, vengono ascoltate come si faceva un tempo.
L’aedo e il rapsodo, la tradizione orale, l’affabulatore. Quanto incide la voce nella memoria dei racconti?
Spesso ad affascinare è il contenuto della storia oltre che il suono. Tuttavia, per memorizzare, l’accentazione è fondamentale, soprattutto per trovare un ritmo. Infatti, il problema della tradizione orale è che, tramandando, la storia viene continuamente modificata: il ritmo, quindi, è molto importante anche in relazione alla memoria. Per esempio, pensiamo ai migranti che ascoltano le musiche e i canti della propria tradizione, che veicolano la memoria della propria terra d’origine.
Tanti anni fa erano stati condotti degli studi, credo dall’Istituto De Martino, confluiti in una collana intitolata “I dischi del sole”, dove venivano riportate le canzoni legate alle migrazioni: sembravano lamenti funebri indirizzati a qualcosa che si era perso ed era evidente che la variazione del ritmo andava di pari passo con la memoria; nel momento in cui la memoria ritrovava il luogo, il ritmo si faceva più lento, perché ormai lo si era perso.
La componente emozionale del suono. Perché la musica e il suono ci fanno commuovere?
Più che sul versante della commozione, la musica ci riporta a suoni che hanno segnato la nostra storia: è la memoria dei suoni e, infatti, le canzoni vengono riascoltate perché è un ricordo quasi sganciato dalla parola. Però la musica riesce a coniugare qualcosa in più rispetto alla parola, perché il suono è dominante e, di conseguenza, la sua percezione che, come tale, precede l’accesso al linguaggio e va al di là della parola.
La musica ci commuove perché muove qualcosa dentro di noi. Il commuovere rimanda ad un movimento interno, poiché tocca le corde della memoria che ritroviamo come coincidenza di stati d’animo: è questo che provoca la commozione, che è una sorta di svelamento con rivelazione, nel senso di aver collocato un nuovo velo attraverso cui riconosciamo qualcosa.