Giovanni Farina ha intrapreso l’attività di accordatore di pianoforti nel 1976, dopo un’esperienza torinese presso Antonio Cuconato, già accordatore della Rai e del Teatro Regio di Torino. Tornato in Puglia, oltre a creare nel 1980 la ditta Farina Pianoforti e a servire le varie associazioni concertistiche e i conservatori di Bari, Lecce e Taranto, continua a ricercare tecniche per migliorare e regolare il suono dei pianoforti, che lo portano a produrre diverse relazioni tecniche poi presentate e discusse nel contesto professionale degli accordatori appartenenti all’associazione italiana degli accordatori AIARP. Nel 2013 si è laureato in tecniche audioprotesiche all’Università di Bari, acquisendo così ulteriori elementi di indagine collegati alla conoscenza della psicoacustica e della fisiologia particolare dell’orecchio umano. In particolare ha discusso una tesi di laurea sulla protesizzazione di musicisti ipoacusici. www.farinapianoforti.it
Gli strumenti musicali possono essere interpretati come veri e propri spazi per la musica: la loro costruzione, la scelta dei materiali e delle forme sono funzionali alla manifestazione del suono nella sua specificità timbrica. Soffermiamoci sul pianoforte e parliamo del legame tra materiali e forma in funzione del suono finale.
Mentre completavo la mia preparazione professionale sul pianoforte, mi rendevo conto che la storia degli strumenti musicali in genere, e quella del pianoforte in particolare, era determinata dal rispetto di esigenze di equilibrio del suono, nei suoi vari comparti frequenziali, e dalla potenza richiesta dallo strumento. Inoltre, osservando un pianoforte nel suo insieme, è evidente come le scelte siano state motivate, vuoi nella dimensione delle corde, vuoi nella dimensione delle tavole di risonanza, dall’esigenza di adattare una realtà fisica, cioè la potenza dei suoni misurati con uno strumento, ad una psicoacustica, cioè quella che viene effettivamente percepita dall’uomo attraverso l’orecchio.
Da ciò è chiaro che la forma, ad esempio, di un’arpa è dovuta non tanto al piacere di creare delle piacevoli forme geometriche, quanto al fatto che le corde dei bassi devono essere più lunghe delle corde degli acuti. Aprendo un pianoforte a coda si può notare che le corde sono disposte proprio come nell’arpa, per cui anche qui la forma caratteristica è dovuta allo sviluppo delle corde. Un violino o una chitarra devono la loro forma al modo in cui sono suonati, al range frequenziale che possono abbracciare e all’affinamento delle caratteristiche sonore avvenuto lungo i secoli. L’energia vibrante delle corde sarebbe ben poco avvertibile se non ci fossero le tavole di risonanza che, fatte con legnami a basso peso specifico e ben stagionati, permettono la diffusione del suono nell’ambiente.
Nel pianoforte, le cui note spaziano da 27,5 a 4186 Hz (il più ampio range frequenziale tra gli strumenti acustici), il problema della forma e degli spessori della tavola di risonanza è molto complesso perché è difficile equilibrare in potenza e timbro i diversi comparti a livello appunto psicoacustico. Un suono, infatti, è costituito dai cosiddetti “armonici” che, in funzione della loro quantità e del tipo, determinano la qualità e il timbro di uno strumento musicale: a parità di altezza, riconosciamo se un suono viene prodotto da un violino o da un pianoforte proprio in virtù del timbro, che dipende dagli armonici.
Quindi, perché gli strumenti hanno forme diverse? Qual è il rapporto tra forma di uno strumento musicale e suono finale?
La forma di uno strumento è determinata essenzialmente da due fattori: il range frequenziale e il modo in cui va suonato. Un ampio range (pensiamo al pianoforte e all’arpa) ha bisogno di un grande strumento, con grande tavola di risonanza e potente struttura per poter sostenere il grande carico dovuto alla tensione totale delle corde. Un range più contenuto, tipico di uno strumento con poche corde come la chitarra, il violino o il mandolino, richiede forme diverse e strutture meno impegnative.
Un’altra riflessione scaturita dall’osservazione dalla famiglia degli strumenti ad arco (violino, viola, violoncello e contrabbasso), è che ognuno degli strumenti della famiglia copre una parte limitata del range frequenziale: infatti il violino riproduce i suoni acuti e il contrabbasso si occupa del registro più grave. Essi, quindi hanno in comune la forma ad “otto” della tavola di risonanza: evidentemente essa è finalizzata alla produzione delle note con timbro omogeneo su tutti gli strumenti della famiglia. Immaginiamo di sentire una scala musicale in discesa dal violino al contrabbasso: quando il violino ha prodotto il suono più basso che può, deve cedere il “testimone” alla viola, poi la viola al violoncello ed infine al contrabbasso.
Nel caso del pianoforte e dell’arpa, per via dell’estensione enormemente più grande delle note da produrre, la tavola di risonanza è più stretta e rigida sugli acuti e molto più larga ed elastica sui bassi.
Immaginiamo di voler trasmettere il moto vibratorio di una corda bassa in una zona frequenziale diversa, come quella degli acuti: il suono non sarebbe così bello perché la zona degli acuti è molto più stretta. Quindi bisogna considerare la posizione della corda finalizzata alla produzione del suono migliore possibile. Va da sé che il dimensionamento della tavola armonica è frutto un po’ di esperienza e un po’ di logiche fisico-matematiche.
Ad esempio, il pianoforte così come lo vediamo, è frutto di una elaborazione che è avvenuta nei secoli. Tra gli antenati del pianoforte vi erano il clavicordo e il clavicembalo; avevano in comune la tastiera e una larga estensione, ma erano decisamente meno potenti. Successivamente Bartolomeo Cristofori, nel 1700, inventò il primo pianoforte: lo chiamò “clavicembalo col piano e col forte” perché permetteva all’esecutore di variare l’intensità. Si trattava di clavicembali un po’ ridimensionati, in cui la produzione del suono era affidata alla percussione di martelletti invece che allo sfregamento di una penna sulle corde.
Nei periodi successivi il pianoforte, nelle sue evoluzioni, è stato adeguato alla potenza di un organico orchestrale: pur lasciando le caratteristiche progettuali del pianoforte di Cristofori, i produttori aumentarono le dimensioni di martelletti, corde e tavole di risonanza in funzione dell’aumento della potenza del suono.
Inoltre, vorrei aggiungere un dettaglio importante nella descrizione della tavola armonica: non è un amplificatore e, pertanto, deve strutturare al massimo l’energia trasmessa dalle corde. La qualità dei materiali e del progetto sono funzionali quindi alla minore “impedenza” possibile.
Oggi siamo abituati a sentire tutto attraverso dei diffusori acustici che sfruttano un’energia esterna allo strumento, cioè la corrente elettrica, mentre gli strumenti acustici devono sfruttare al massimo l’energia prodotta dal dito quando percuote il tasto. La corda messa in vibrazione suonerà di più e più a lungo se la tavola di risonanza offrirà meno impedenza al suono in arrivo. Ad esempio potremmo provare ad appoggiare una mano sulla tavola armonica di una chitarra: il suono prodotto sarà meno intenso a causa appunto dell’impedenza prodotta dalla nostra mano. L‘impedenza può essere insita nella progettazione dello strumento: i materiali potrebbero essere poco elastici o potrebbero non vibrare alla frequenza di risonanza adatta alla nota che si vuole sentire. Le scelte di un buon costruttore sono finalizzate a rendere un suono quanto più gradevole, equilibrato possibile.
Esiste uno stretto legame tra componimento musicale e spazio architettonico in cui viene eseguito. C’è lo stesso rapporto di interdipendenza tra strumenti musicali con cui l’autore ha composto e l’opera (e l’esecuzione) finale?
Sì, c’è un collegamento tra una composizione e l’esecuzione filologica sullo strumento su cui è stato composto; un pezzo scritto per clavicembalo e suonato con un pianoforte non viene rispettato nelle sue peculiarità: ogni brano è finalizzato allo strumento su cui è stato composto.
Non si tratta, banalmente, di un semplice accanimento filologico: infatti vorrei soffermarmi su di un dettaglio. Quando suoniamo uno strumento, la mano agisce in funzione del feedback acustico che suggerisce all’esecutore di modulare la potenza e la dinamica del suono (forte, piano e sfumature): se ho suonato una nota troppo forte, e non è funzionale all’interpretazione del brano, mi correggerò sulla base del feedback acustico che il mio orecchio ha ricevuto.
In uno strumento musicale, il feedback acustico è determinato dallo strumento stesso. In altri termini, se ho uno strumento molto efficace sulle note basse, inconsciamente la mia mano tenderà a produrre dei suoni nel comparto basso; oppure, se lo strumento ha dei suoni stridenti o non piacevoli in una zona, cercherò inconsciamente di stringermi nell’area dove il suono è più gradevole. Ogni musicista, mentre compone, ha un feedback acustico motivato dagli strumenti con cui scrive la sua musica.
Ho avuto la fortuna di ascoltare l’esecuzione di un brano di Chopin, da parte di una musicista filologicamente preparata, e suonato su uno dei pianoforti su cui l’Autore componeva: ho ascoltato ritardi, suoni ed effetti che non avevo mai sentito in altre interpretazioni. Ho capito, quindi, che c’è indubbiamente una perdita nell’ascoltare opere eseguite con strumenti musicali e in spazi architettonici che non coincidono con il contesto in cui un autore scriveva.
Mi accorgo che oggi dal punto di vista della didattica musicale, e spesso nell’esecuzione stessa, ci si sofferma troppo sulla correttezza ritmica: l’orecchio umano e la musica non sono questo! La musica nasce dall’uomo, è finalizzata all’uomo e non al rispetto della scansione del metronomo: la bravura di un docente sta proprio nel capire quando l’allievo può andare oltre la precisione ritmica e può davvero iniziare a diventare un interprete.
Cosa pensa delle versioni elettroniche degli strumenti musicali tradizionali (pianoforte elettronico o violino elettrico, ad esempio)? Ci sono vantaggi o benefici nel preferirli a quelli analogici? In base alla Sua esperienza, con la diffusione degli strumenti elettronici e digitali le preferenze dei musicisti sono cambiate nel corso degli anni?
L’argomento si presta a varie interpretazioni: volendo essere super partes e pensando più in generale, quando qualsiasi mezzo è in grado di risolvere i problemi di un individuo, esso è valido. Senz’altro un musicista in erba può trarre beneficio nell’avere a disposizione uno strumento di basso costo e di prestazioni sufficienti, senza doversi scoraggiare davanti al più alto costo di uno strumento tradizionale e, per questo motivo, abbandonare lo studio della musica. Pertanto, anche lo strumento digitale è un veicolo per la cultura.
Il problema risiede nell’informazione che viene data circa gli strumenti digitali e nella possibilità di confronto con lo strumento tradizionale che, appena ascoltato, chiarisce la sua posizione di supremazia. Ad esempio, chi si accosta per la prima volta allo studio della musica, dovrebbe essere accompagnato e guidato nel capire la bellezza dello strumento classico; o, comunque, se si inizia con uno strumento digitale occorrerebbe far capire che si tratta solo dell’inizio di un percorso che avrà come obiettivo il suonare uno strumento analogico.
Cercherò di chiarire come mai ci sia una grande differenza tra lo strumento classico e quello digitale.
Essa nasce dal fatto che, mentre lo strumento tradizionale è stato formato, a seguito di un’evoluzione storica, dall’uomo per l’uomo, lo strumento digitale, quando non nasce per creare uno strumento nuovo (che quindi non ha un precedente) ma imita qualcos’altro, resterà sempre un’imitazione, perfettibile ma mai uguale all’originale.
Gli strumenti musicali come il pianoforte, o comunque, il cui principio di funzionamento si basi sulle vibrazioni meccaniche trasmesse nell’aria direttamente da una tavola armonica o da un elemento diffusore di suono, hanno delle caratteristiche armoniche che vengono ripresentate all’orecchio dell’ascoltatore in maniera completa.
Mi spiego meglio. Un suono che noi ascoltiamo non è mai soltanto l’espressione di una sola componente frequenziale:ce ne sono diverse e tutte con una loro potenza definita. Ad esempio, pensiamo a quando ascoltiamo un dialogo in presenza di un forte rumore di fondo: se parliamo a bassa voce non riusciremo a sentire perché gli elementi che costituiscono un suono complesso, in presenza di un suono più forte, vengono soppressi, annullati e comunque poco percepiti.
Inoltre, quando si imita un suono, si usano strumenti in grado di campionare quello da imitare. Se l’apparato non è stato capace di rilevare i minimi suoni che invece l’orecchio umano è capace di percepire, esso non potrà mai riprodurli e il suono potrebbe non essere definito totalmente: è come vedere un’immagine con una definizione di colore bassa, dove le varie gradazioni non saranno visibili.
Ad esempio, la voce ascoltata al telefono viene riconosciuta come appartenente ad una determinata persona solo perché è stata già sentita precedentemente, in quanto non c’è coincidenza tra la voce reale e quella riprodotta attraverso un apparecchio telefonico, che per sua natura taglia alcuni dettagli del suono trasferito: nel nostro cervello, quindi, si creano due immagini di voci appartenenti allo stesso individuo, quella dal vivo e quella telefonica.
Allo stesso modo, un pianoforte digitale rappresenta la copia della voce dello strumento tradizionale ma nel nostro cervello si configurano due suoni diversi, quello del pianoforte vero e quello del pianoforte digitale.
Infine, un altro aspetto da sottolineare è la capacità binaurale che è propria dell’orecchio umano: a causa dell’ostacolo esercitato dalla testa, a determinate frequenze, si determina un leggero ritardo nella percezione dei suoni da parte delle singole orecchie.
Per capire meglio la differenza tra ascolto binaurale e non binaurale possiamo portare l’esempio della vista. Chiudendo un occhio avremo una visione monoculare che crea problemi nella determinazione delle distanze perché le differenze di posizione che l’occhio coglie, per il fatto che gli occhi sono distanti tra loro di alcuni centimetri, consentono al cervello di stabilire la profondità.
Nel caso della percezione sonora, il fatto di ascoltare con un orecchio solo o comunque con un suono uguale da entrambe le orecchie dà sicuramente l’idea di ciò che si sta ascoltando, ma non si ha la sensazione della profondità: ciò non permette di apprezzare la qualità e le sfumature di un messaggio sonoro nella loro pienezza. Per chiarire, pensiamo, ad esempio, ad un’orchestra in cui tutti i suonatori sono sulla stessa linea invece che disposti in uno spazio a tre dimensioni.
Nell’ambito degli strumenti musicali digitali, quindi, il suono viene campionato da un mezzo che ha un solo orecchio: anche se il suono è stereofonico, in partenza non è stato campionato secondo la percezione binaurale, tipica dell’orecchio umano.
Spesso vengono organizzati laboratori, prevalentemente destinati ai bambini, in cui si costruiscono strumenti musicali semplici ma funzionanti. Secondo Lei, queste attività sono realmente educative e aiutano a comprendere come creare dei dispositivi per fare musica?
Premetto che non ho esperienze dirette in merito, tuttavia penso che tutte le attività che puntano a pungolare la creatività infantile e la produzione fantasiosa di strumenti siano positive e aiutino a semplificare la complessità che sottende alla costruzione di uno strumento musicale. In un’attività didattica tesa a produrre strumenti musicali nuovi, sicuramente si sviluppa la curiosità del bambino perché è bello scoprire che si riesce a produrre un suono. Tuttavia penso che ci sia un grosso limite: il cervello umano assorbe dall’esterno una serie di suoni complessi e non riproducibili dagli strumenti-gioco; il bambino si accorgerà dell’insufficienza di quegli oggetti e, auspicabilmente, in futuro si orienterà verso lo strumento classico vero e proprio. E’ un po’ come costruire una casa con il Lego: non si costruisce una casa vera, ma solo una simulazione. Tuttavia sono convinto che siano attività molto positive e proficue per lo sviluppo dell’intelligenza infantile.
Il musicista esecutore e l’ascoltatore: secondo la Sua esperienza, quali sono le esigenze da rispettare in una sala da concerto?
Ho ascoltato molti concerti in differenti sale, in presenza di diversi tipi di musicisti e di pubblico: devo dire che il denominatore comune deve essere il rispetto, sia da parte dei musicisti che degli ascoltatori.
E’ noto il fastidio causato dal telefono cellulare che squilla o dalle persone che bisbigliano. Si comportano così, talvolta, a causa dell’alto volume all’interno della sala da concerto: in assenza di amplificazione, qualsiasi suono viene percepito, perché l’orecchio umano ha una sensibilità tale da poter sentire l’effetto di una foglia che cade (intorno ai 20 dB).
Inoltre occorre rispettare la puntualità, sia da parte del musicista sia da parte del pubblico. Infine, il concerto deve essere fruibile sia nella durata sia nei contenuti, ovvero essere né troppo lungo né troppo monotono, per evitare cali di attenzione.
Le sale da concerto o i teatri sono, al pari degli strumenti musicali, spazi destinati a far vibrare il suono e la musica. In base alla Sua esperienza, quali sono i requisiti acustici e le problematiche pratiche da affrontare nella progettazione di quei luoghi, sia dal punto di vista dei musicisti, sia degli ascoltatori?
L’argomento relativo alla sala d’ascolto è complesso, perché interessa varie categorie professionali.
Innanzitutto occorre stabilire quali siano le modalità d’uso e quindi di ascolto prevalenti della sala: un cinema non può essere anche un teatro, mentre il contrario è possibile. Ciò è motivato dal fatto che, prima dello sviluppo dei moderni sistemi di amplificazione, il teatro veniva dimensionato e progettato, dal punto di vista volumetrico, in funzione della possibilità, da parte del pubblico, di ascoltare l’artista. Si racconta di antichi stratagemmi, piccoli ma efficaci, per far sentire la voce degli attori nei punti più lontani del teatro: la nota maschera di Pulcinella, ad esempio, non serviva solo per nascondere il volto, ma anche per sfruttare particolari volumetrie all’interno della maschera che producono un effetto di riverberazione sulle frequenze che più caratterizzano la voce permettendo, anche al pubblico più distante, di seguire le rappresentazioni.
In una sala da concerto le pareti non devono essere perfettamente parallele: esiste un fenomeno chiamato “effetto pettine” che produce una sorta di scrematura delle componenti di un suono, dovuta al fatto che i suoni riflessi dalle pareti tendono ad annullarsi reciprocamente; ciò determina, inevitabilmente, un disturbo, una distorsione del messaggio sonoro originale.
Un altro aspetto da curare all’interno di una sala da concerto è la scelta dei materiali, che possono essere fonoassorbenti o fono-riflettenti. Si dovrebbe preferire il legno, che è un ottimo materiale anche dal punto di vista acustico; l’uso della moquette invece, ormai molto diffuso, non è l’ideale per un teatro, mentre è più indicato per un cinematografo.
Anche l’altezza del palco ha notevole importanza: spesso capita che ne venga sfruttato lo spazio sottostante, per ricavarne camerini o depositi, penalizzando il rapporto visivo ed acustico tra gli artisti e gli spettatori.
Il piano di rivestimento del palco dovrebbe essere rigorosamente realizzato in abete, non solo per motivi acustici ma anche per questioni pratiche perché sul palco devono poter essere infissi elementi di carpenteria per fissare le scene (viti e chiodi), e l’abete è abbastanza tenero per questo. Questi tavolami dovrebbero essere fissati su listelli o su travi anch’essi in legno e non direttamente sul pavimento in calcestruzzo, per ottenere il miglior rendimento acustico.
Infine, lo spazio sovrastante il palco dovrebbe avere un’altezza tale da consentire il rientro verso l’alto delle scene per semplificare la realizzazione di una rappresentazione teatrale.
Nel nostro territorio pugliese, ci sono diversi teatri che possiamo considerare punti di riferimento ma, a mio avviso, il luogo che ha l’acustica migliore è il Teatro Petruzzelli di Bari: le dimensioni volumetriche sono perfette. Ad esempio, nei lavori di ricostruzione, il palco è rimasto uguale a quello del progetto originale; tuttavia sono stati creati due antipalchi, che si possono sollevare a piacere, per consentire all’orchestra di trovarsi all’altezza giusta rispetto al pubblico, al fine di consentire una corretta visione e il migliore ascolto possibile.
Il palco in un teatro è fondamentale: il teatro è il palco! Troppo spesso si privilegia la grandezza della platea e si progetta un palco piccolo che risulta inadatto per ospitare un’orchestra appena più grande o un’opera teatrale.
In alcuni teatri, inoltre, ci sono alcuni problemi relativi ai corridoi di passaggio tra palco e platea: dopo il concerto è gratificante poter parlare con il musicista, ma talvolta non c’è questa possibilità per l’assenza o l’eliminazione di questi passaggi.
Inoltre, tra gli accorgimenti che mi permetto di suggerire ai progettisti, occorre pensare anche alla presenza e alla movimentazione di scene o di grossi elementi, come ad esempio un pianoforte a coda, che devono essere trasportati e agilmente posizionati sul palco.
Occorre anche pensare al rumore provocato dagli impianti di condizionamento che potrebbe dare fastidio ai musicisti o agli attori in scena.
Naturalmente, oltre quelli da me elencati, ci sono tanti altri piccoli e grandi problemi di ordine pratico da tenere in considerazione durante la fase di progettazione di un teatro o di una sala da concerto, per cui suggerirei sempre agli architetti ed ingegneri che si cimentano in un’opera del genere di raccogliere quanti più dati e suggerimenti possibile direttamente dagli addetti ai lavori.