Fabio Magistrali è un produttore tra i più stimati dell’underground italiano. A partire dalla fine degli anni ’80, intraprende l’attività di fonico, per divenire anche produttore nel decennio successivo. Nel 1995 lavora come produttore con i Six Minute War Madness. Nel 1997 fonda A Short Apnea con Paolo Cantù e Xabier Iriondo. Come fonico e produttore ha lavorato con Ritmo Tribale, Afterhours, Scisma, Cristina Donà, Santo Niente, Sux!, Elettrojoice, Perturbazione, Lo-Fi Sucks!, Bugo, Marta sui Tubi e molti altri. Al MEI 2004 è stato insignito del premio come miglior produttore italiano ma non lo ha accettato.
Come, quando e dove è iniziato il tuo interesse per la musica punk?
Il mio interesse è iniziato abbastanza tardi perché, non avendo fratelli maggiori e non essendo cresciuto in un ambiente stimolante in questo senso, mi sono trovato a procedere avanti negli anni dell’adolescenza senza avere spunti.
Erano i primi anni ’70 e vivevo a Milano. Frequentavo il liceo classico e studiavo pianoforte: mi impegnavo nello studio della musica classica più per fare contenta la mia famiglia che per mia scelta.
La disco music, anche se agli albori nella sua identità funk e soul, era molto diffusa tra i miei coetanei: serpeggiava l’idea di creare le prime discoteche casalinghe durante le feste in casa tra compagni di classe, soprattutto perché era un tipo di musica che permetteva di ballare.
Un amico ripetente, quindi, mi propose di ascoltare un disco di Patti Smith, “Horses”: me lo prestò e lo ascoltai a casa ma senza capirci nulla, proprio perché non avevo mai ascoltato precedentemente musica rock. Ora posso dire che, se secondo me, quel disco non era particolarmente radicale ma, dal mio punto di vista di adolescente, mi risultava insostenibile il trasporto emozionale del cantato.
Quindi, decisi di restituire il disco al mio amico, con un po’ di delusione per non essere riuscito a capirlo fino in fondo.
Un paio di mesi dopo, decisi di chiedere al mio amico di prestarmi nuovamente il disco, anche perché avevo iniziato ad ascoltare le radio libere e quindi anche un po’ di rock: dopo aver riascoltato “Horses” ricordo che, dal quel momento in poi, non sono stato più la stessa persona.
Devo dire che non riuscivo ad orientarmi musicalmente anche perché le riviste musicali non erano molto chiare: c’era chi trattava l’argomento rock in maniera, a mio avviso, depistante in quanto i giornalisti che scrivevano erano quelli della generazione precedente e, quindi, molto sospettosi verso le novità, anche se ne avevano bisogno, e quindi andavano a cercare il nuovo nella massima rappresentazione accademica del “vecchio”, che era il progressive o il glam, formatisi alcuni anni prima.
All’epoca c’era un bisogno attitudinale diverso rispetto a quello odierno nei confronti della musica: i giovani, nei testi delle canzoni o nel modo di atteggiarsi o di vestirsi dei vari cantanti, trovavano una forma di rappresentazione, di riconoscimento o di emulazione molto più forte rispetto ad oggi. Le industrie capirono molto presto questo bisogno giovanile e lo fecero diventare un meccanismo commerciale: ciò è avvenuto addirittura a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, ovvero alcuni anni prima della mia adolescenza.
A Milano negli anni ’70 i grandi cambiamenti socio-culturali arrivarono quando erano già maturi altrove, perciò mi accorsi che qualcosa di nuovo stava succedendo solo tra il 1977 e il 1978, cioè dopo che in realtà altrove, come in Gran Bretagna, era già finito tutto, nel senso che erano stati già impostati i fattori che avevano generato il fenomeno punk.
Quindi, in pochi mesi, iniziai a credere che stesse succedendo, sul piano del linguaggio musicale, qualcosa di diverso, nonostante i giornalisti e i critici scrivessero che il punk coincidesse con i riff di Chuck Berry, del primo rock ‘n roll, che ci si vestisse con i giubbotti di pelle come i Teddy Boy e che, quindi, non ci fosse nessuna novità. Sicuramente c’erano dei riferimenti chiari al passato, ma ciò avveniva perché eravamo in un vicolo cieco ed era inevitabile partire da parametri certi per modificarli e rigenerarli nel significato.
In effetti, c’era una generazione di giovanissimi che non sapeva suonare: era come se l’utilizzo del linguaggio musicale fosse finito nelle mani di sordomuti.
Nel giro di un paio di anni, questi giovani hanno creato un linguaggio profondamente diverso rispetto a quello precedente (pop e rock), inventando quel grande contenitore che era la musica new wave. La vecchia critica, quando vide che noi giovani “sordomuti” nel parlarci tra di noi con bocche socchiuse e con versi grotteschi, effettivamente stavamo creando un modo di comunicare molto definito e contemporaneamente variegato, iniziò a dare dignità alla nostra musica.
Quali dinamiche o strumenti ti hanno aiutato a conoscere il fenomeno punk?
Lo scambio di dischi tra amici è stato fondamentale. I dischi si trovavano raramente in quanto i negozi di solito non vendevano questo genere di musica perché, non essendoci un pubblico, essi non venivano stampati in Italia dalle varie etichette discografiche. Si poteva trovare materiale di importazione ma pochi erano i negozi che importavano queste musiche perché in realtà il grosso carico di import era dedicato a generi di culto come il disco jazz di avanguardia o il jazz rock, che avevano un bacino di utenza più probabile.
In alcuni casi mi sono sentito dire: “no, io la musica di destra non la vendo nel mio negozio”. Il negoziante sembrava sincero e schierato, anche se in realtà era solo disinformato e vittima di pregiudizi.
In seguito la diffusione è migliorata nel senso che fu aperto un negozio a Gallarate: ricordo che mettevo da parte i soldi e non mangiavo a pranzo per poter andare un sabato ogni mese a Gallarate a comprare dischi con il mio amico, che poi diventò il mio futuro chitarrista; tornavamo a casa con dischi diversi, che poi ci scambiavamo.
Quindi attraverso quali canali si è diffusa la musica punk in Italia?
Quando, in ritardo, si è capito che il punk funzionava bene all’estero, intorno al 1977-78 RCA pubblicò una raccolta di dischi, con copertine kitsch perché veniva ridicolizzata e riprodotta quella che sembrava essere l’iconografia del punk, ovvero lamette, ragazzi drogati, etc. I dischi venivano venduti ad un prezzo speciale, il prezzo punk. E’ interessante domandarsi perché il prezzo fosse basso: forse perché chi ascoltava punk aveva pochi soldi? Forse perché RCA pagava poco le etichette discografiche? Io, comunque, ho apprezzato molto queste compilation, dal punto di vista musicale, perché permettevano di farsi un’idea rapidamente di cosa fosse il punk: non c’era una scelta accurata di canzoni e band ma era importante che ci fossero e che quindi fossero un veicolo per far conoscere il movimento.
Un passaggio importante fu anche la vendita di dischi usati presso la Fiera di Senigallia, prima che fosse aperto il primo negozio di questo tipo, ossia “Il Discomane”: in questo modo potevo comprare dischi a prezzo basso o vendere quelli miei che non mi piacevano, perché poteva capitare di sbagliare gli acquisti…
Qual è la tua storia come musicista?
Il primo concerto, suonando con un gruppo molto acerbo, è avvenuto nello spazio di via Correggio a Milano, che era stato occupato dai primi punk milanesi; era la prima sede del futuro “Virus” e si chiamava “Vidicon”: è stato molto importante trovare un luogo di riferimento perché prima eravamo stati molto raminghi nella scelta di luoghi in cui poter bere una birra, incontrarsi, chiacchierare e scambiarsi dischi. Prima del “Virus”, gli spazi per suonare erano inesistenti.
C’erano le sale prova che, oltre ad essere degli spazi molto difficili dal punto di vista tecnico, erano date in affitto ad ore. Non erano particolarmente costose però noi eravamo liceali e figli di genitori piccolo borghesi che avevano una certa disponibilità economica ma di sicuro non ci finanziavano le prove e non acquistavano strumenti musicali, come invece succede ora.
Com’è proseguita la tua carriera in ambito musicale?
Ho suonato in un po’ di gruppi, ma ho scelto la new wave come linguaggio per continuare ad essere punk perché, dal mio punto di vista, quello ideologizzato e falsamente intellettualizzato dai primi centri sociali tradiva la vitalità artistica punk, sviluppando canoni estetici che vincolavano il comportamento e la creatività. Io ho preferito rompere questo schema ed usare un linguaggio diverso per continuare a comunicare ciò che comunicavo prima.
Ho avuto, quindi, gruppi new wave come i Weimar Gesang ma, verso la metà degli anni ’80, ho vissuto male un passaggio estetico quasi imposto, di colpo, dal giornalismo musicale che volle ridare una possibilità al rock ‘n roll, anche se attraverso una fase schiettamente revivalistica come quella del garage.
In Italia questo passaggio è partito in maniera clamorosa e io, che ero un musicista new wave, mi sono accorto che usavo un linguaggio che non era più ascoltato con attenzione. A quel punto ho sciolto il gruppo e ho smesso di suonare per un periodo; contemporaneamente, ho iniziato il lavoro che svolgo tuttora e che è attinente alla musica.
Si era avviata per me una fase di ascolto di tutta quella musica del passato che avevo trascurato e che aveva un linguaggio diverso dalla new wave: iniziando ad ascoltare jazz ho potuto comprendere ed apprezzare certe avanguardie rock davvero stimolanti e ho vissuto anni fertili per la mia estetica ma senza suonare o avere un gruppo, continuando a lavorare come fonico produttore. Era molto appagante interpretare la musica degli altri e aiutarli a realizzarla: era bello ma non ero il protagonista, non si trattava della mia musica.
Tutte le idee che ho metabolizzato come musicista le ho riprese solo nel 1997, in forma ufficiale, perché mi è sembrato di trovare degli interlocutori interessanti. E’ nato un trio, A Short Apnea, che è durato qualche anno, dove ho convogliato la maturazione degli anni precedenti.
Quando iniziai a non credere più nel trio, perché sentivo poco coinvolgimento, ho dedicato un anno per creare un disco da solo, usando anche la mia voce, e l’ho confezionato come disco postumo.
Una volta realizzato questo manifesto estetico e personale, nel quale conclamavo da solo tutto un percorso che avevo metabolizzato, ho sentito il bisogno di andare oltre con il linguaggio musicale e quindi sono tornato agli inizi. Mi ero reso conto che, quando avevo iniziato, tutto era successo molto in fretta perché i generi musicali si presentavano accavallandosi, soprattutto in Italia che era in ritardo rispetto agli altri Paesi. Ricordo che quando mi capitava di comprare dei dischi, tutti avevano spunti interessanti: era come avere tutti i pensatori messi insieme contemporaneamente e capire che ognuno di loro aveva ragione e andava seguito; ciò ha determinato, inevitabilmente, una sorta di fretta e di superficialità nell’approccio, lasciando in sospeso molte cose.
Arriva, quindi, un certo momento della vita in cui senti di dover mettere in ordine i conti: gli ultimi anni, quindi, li ho trascorsi verso un ritorno alla musica che mi ha fatto nascere come musicista nella speranza anche di ritrovare qualcosa di più carnale, corporeo, proprio in questi ultimi anni di “astrattismo informatico”.
Il tuo lavoro è quello di produttore artistico: che cambiamenti ci sono stati rispetto agli inizi?
Io mi sento musicista e, quando mi hanno proposto il lavoro di fonico, che è un lavoro tecnologico, non solo non sentivo di avere competenze in questo ambito ma credevo di non essere portato.
Alla fine sono riuscito, nel tempo, a non fare di questo lavoro un lavoro tecnico. Ne sono orgoglioso da un lato, ma dall’altro mi trovo in imbarazzo quando ciò non viene capito o apprezzato. Il mio lavoro, quindi, ha assunto le caratteristiche più di produzione artistica, il che implica più creatività interpretativa che puramente tecnologica.
E’ dal 1987 che svolgo questo lavoro e, nel passare dei decenni, ho sviluppato un’ attitudine produttiva che si offre come interpretativa e non soggettivamente creativa: il mio appagamento è riuscire ad interpretare il progetto musicale altrui e vedere quello che gli altri sono o vorrebbero essere.
Questo atteggiamento, inevitabilmente, ha prodotto uno strano vizio attitudinale: io investo emotivamente nella conoscenza prima di tutto delle persone e poi dei musicisti con cui lavoro. Per capire un progetto artistico è necessario capire prima di tutto le persone che lo hanno concepito, altrimenti non potrei intuire cosa vogliono esprimere. Quindi sono portato a credere di aver capito cosa desidererebbero essere rispetto a quello che sono, ossia il sogno che hanno di sè, che poi è la loro bellezza. E’ questo che mi fa appassionare, perché vedo la bellezza che c’è in loro, come potenzialità. Cerco di parteciparvi e di offrire me e l’esperienza che stiamo condividendo come uno specchio.
Come avvengono questi riconoscimenti, queste agnizioni, da parte tua?
All’inizio c’è una lettura relazionale, che non avviene nella fase di lavoro che, invece, è quella più scorrevole, in quanto i musicisti si accorgono istintivamente che io sono già interessato a loro come persone.
Se produco un disco per un gruppo, nel momento in cui la registrazione è completata i rapporti iniziano a complicarsi: io non collaboro con le major o con le aziende, ma solo con essere umani. Tuttavia il gruppo potrebbe decidere diversamente, nonostante sia avvenuto in precedenza un confronto in merito. Nel frattempo, però, io ho investito emotivamente su di loro, come persone e come artisti, e succede che i rapporti talvolta, nella fase di pubblicazione, rischino di incrinarsi e si creino distanze. Quello che succede non guasta la qualità dell’esperienza che c’è stata in fase di produzione ma solo quella delle interazioni successive.
Cosa cerchi nelle band che produci? Cerchi di far emergere cos’è il gruppo o cosa vuole il mercato?
Penso a tutti gli aspetti di una produzione musicale e vorrei che anche loro ci pensassero, ma senza paura. L’unico motivo per cui ha senso unire energie, tempo, denaro, investimenti è per cercare di combattere l’unico nemico che abbiamo, ossia la paura. Vorrei che non avessero paura o almeno che la gestissero stando insieme.
Sicuramente non penso al mercato, se sto producendo musica: non riesco a contemplare prioritariamente questo parametro. La musica è organizzazione di suoni prodotti dall’uomo ed è completamente vuota di significato, di senso e di legittimità se non si fa innanzitutto garante dell’espressione degli esseri umani che vi si appellano: solo su questi presupposti si può poggiare la fase comunicativa, cioè il mercato.
Possiamo dire che la tua attività è maieutica?
Sì, anche se non mi interessa dare una definizione alla mia attività. Io cerco di far emergere l’identità di un gruppo. Ci sono produttori di musica pop che costruiscono le band; al contrario io non sono interessato a costruire un evento sociale in quanto economico: io cerco solo di fotografare un evento umano e, se poi diventa sociale e magari economico, a me non interessa.
Però le pratiche giovanili legate alla musica, nel corso della storia recente, sono state capitalizzate, nel senso che è stata riconosciuta la potenzialità del business: Take That o Spice Girls, e soprattutto gli epigoni, sembravano una costruzione a tavolino…
Sono d’accordo, ma anche i Sex Pistols lo erano, anzi, si trattava di un progetto di antagonismo sociale; il fatto che Malcom Mc Laren volesse guadagnarci economicamente è un fattore che io non condivido, ma non era irragionevole.
Malcom Mc Laren, come impresario, ha in un certo senso capitalizzato sulle controculture. Oggi succede ancora?
Sì ma la differenza è questa: Mc Laren è intervenuto su qualcosa che poteva esserci e che riteneva fosse fortemente importante che avvenisse, e ha operato, anche cinicamente se vogliamo, a questo scopo.
Quello che avviene adesso è come se Mc Laren, anziché tornare dall’America con le idee che rapidamente lo avevano suggestionato, dagli abiti di Richard Hell al sound dei New York Dolls, e avendo deciso di creare una sua band, avesse ingaggiato i Sex Pistols in una fase di sbando completo o Sid Vicious a due settimane dalla morte, e avesse prodotto dischi e film, creando una leggenda e speculandoci sopra.
La produzione musicale autonoma: strumenti open source, file sharing, social network, diffusione senza mediazioni. Cosa rappresenta oggi la figura del produttore indipendente?
Mah! Io, ad esempio, scelgo di lavorare con un sistema misto analogico/digitale e non uso il computer. Ciò richiede ai musicisti di oggi, abituati ai software casalinghi, un adeguamento e la rinuncia ad alcuni ausilii informatici che tendono ad allontanarli eccessivamente dalla responsabilità “corporea” della propria esperienza. Sarebbe un discorso molto ampio ma, in estrema sintesi, dico che trasformare l’esperienza di registrazione delle proprie musiche in un esercizio di totale indipendenza progettuale, estetica e di consapevolezza “corporea” oggi sia l’unico modo per renderla legittima, opportuna e persino necessaria. Daltronde abbiamo certamente più bisogno di progettare diversità e di sperimentarla nella realtà fisica piuttosto che gongolarci o farci distrarre con l’ennesima carezzevole ed insieme solleticante canzoncina, no?