Enrico Ascoli è un artista sonoro, sound designer e music producer. La sua attività spazia dalla sound art, alla live performance, alla creazione di colonne sonore per animazioni, spot pubblicitari e opere teatrali. E’ docente di “Sound Design” e “Psicologia della Musica” presso l’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano e il Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino. Ha collaborazioni attive con video artisti come Donato Sansone, Rino Tagliafierro, Ra di Martino insieme ai quali viene selezionato in numerosi festival internazionali di cinema ed animazione, e con artisti contemporanei, con i quali ha preso parte alla Biennale di Praga, Art Basel, Rijksakademie Amsterdam, Royal College of Arts London, Fondazione Bevilacqua la Masa Venice, Museion di Bolzano. Le sue installazioni sonore e le performance live sono state presentate in vari festival internazionali come Interferenze festival, E-ArtQuake Festival, MyAtelier, Barsento Mediascape, Rural Scape. Nel 2013 ha vinto il Milano Design Award come miglior installazione sonora. Recentemente l’etichetta indipendente Galaverna ha pubblicato la sua composizione Nubicuculia. Lavora con le maggiori agenzie pubblicitarie italiane. Questo il suo web site e canale vimeo.
La tua attività di sound designer spazia dalla progettazione di installazioni artistiche alla creazione di commenti sonori per animazioni, pubblicità e filmati. Qual è il medium che preferisci e perché?
Istintivamente potrei dire che preferisco le installazioni di sound art, per il semplice motivo che rappresentano la modalità in cui posso esprimere, con maggiore libertà, la mia estetica sonora. In realtà non è così perché normalmente amo diversificare tanto il mio lavoro, in quanto penso che essere un sound designer e non, a tutti gli effetti, un compositore o un artista di arte contemporanea sia estremamente arricchente perché permette di spaziare e di sperimentare in tanti tipi di linguaggio e di riflettere sul suono in modo sempre diverso.
Tra i vari ambiti in cui lavoro, sicuramente creare il commento sonoro di un’animazione è molto affascinante e stimolante perché occorre inventare universi che non sono verosimili ma di pura fantasia: in questi casi, infatti, talvolta mi capita di intraprendere strade diverse, rendendomi conto di quanto il suono possa veicolare significati ed emozioni differenti, molto più che nel cinema. Al contempo, mi diverto anche nel lavorare per spot pubblicitari, che rappresentano una realtà molto lontana da me, e proprio per questo sono spronato ad esplorare linguaggi, anche compositivi, che non affronterei mea sponte.
Per quanto riguarda le mie installazioni, noto che talvolta mi sento più motivato nel processo di ricerca che porta all’installazione, che non alla finalizzazione della stessa: mentre nella pubblicità o nell’animazione il percorso di ricerca viene eclissato perché l’importante è il risultato, invece ciò che amo nelle installazioni è proprio il lavoro di ricerca che mi porta a sviluppare determinati concetti e inventare tecniche per realizzarli. Anche se sono un musicista elettronico e lavoro con tecniche digitali, tuttavia quando mi immergo nella creazione artistica mi piace abbandonare il computer per buttarmi il più possibile sulla produzione analogica del suono, interpretandolo come oggetto fisico, fatto di materiale concreto da plasmare ed esplorare: le possibilità timbriche sono infinite e riesco a scoprirle e a farle emergere soltando manipolando fisicamente gli oggetti a mia disposizione.
Vorrei soffermarmi su “Blowjob. Aeolic concert for three guitars and fans” (2011). L’idea delle chitarre elettriche amplificate è presente anche in un’opera di Céleste Boursier-Mougenot, “From here to ear”, dove a suonare gli strumenti, casualmente, sono un gruppo di fringuelli lasciati liberi di volare. Nella tua installazione, invece, a parte la scelta etica di evitare la presenza di esseri viventi come motore dell’esecuzione, la casualità del suono è determinata da tre ventilatori a cui, mentre ruotano meccanicamente, sono stati collegati alcuni plettri con una corda morbida.
Mi sembra di notare nella tua installazione, più che in quella di Céleste Boursier-Mougenot, una propensione “cagiana” alla casualità dove la variabilità dell’effetto sonoro finale, sempre cangiante, è vincolato alla regolarità dell’oggetto meccanico: tanti sono gli esempi di “libertà vincolata” in John Cage, da “Imaginary Landscape n. 4” a 4’33”. Puoi descrivere l’idea alla base di “Blowjob”?
L’idea alla base di “Blowjob” può essere analizzata da vari punti di vista. Il primo è sicuramente narrativo-concettuale e consiste nel voler tributare un Requiem al rock. Il titolo “Blowjob” è volutamente provocatorio e ironico: l’allusione alla sessualità risiede nel vedere la chitarra elettrica come metafora del fallo e, quindi, di un certo tipo di protagonismo della star sul palco che oggi, dal mio punto di vista, non ha più senso, risultando ridicolo e anacronistico.
Per questo motivo ho deciso di collocare le chitarre in verticale, come se fossero falli eretti, e di farle suonare non da una rockstar ma dal vento, come metafora di quel che resta, ossia dalla natura stessa, anche se in realtà esso è generato da ventilatori. Come succede in quasi tutte le mie installazioni, però, il presupposto concettuale mi ha permesso di allargare la riflessione ad altro, che non è l’aleatorietà all’interno della composizione, che viene di conseguenza, ma coincide con la ricerca di una dinamica naturale in grado di catturare il fruitore dell’opera all’interno della ripetizione poetica di un fenomeno di cui lui e spettatore consapevole.
Nelle mie installazioni cerco sempre di proporre un evento ripetitivo ma sempre diverso al contempo come, ad esempio, l’osservazione delle onde del mare o delle foglie al vento o l’ascolto della pioggia, “quiete in movimento” direbbero nella filosofia Zen: “Blowjob” ha rappresentato l’inizio di questo tipo di ricerca che poi ho portato avanti in altre installazioni. Mi è piaciuto innanzitutto il contesto in cui è stata inserita l’installazione: un cubo su un prato, all’interno di un parco, visitabile da chiunque. Inoltre volevo evitare che l’aleatorietà portasse ad un risultato caotico: pertanto le chitarre, tutte insieme, riproducono un accordo che crea una sensazione di sospensione perenne, una musica in divenire ma senza mutamento.
Nelle mie installazioni cerco di rendere visibile la riconoscibilità del funzionamento: per questo motivo preferisco usare materiali concreti e fisici piuttosto che utilizzare tecniche digitali, che invece rischiano di nascondere il meccanismo, suscitando una forte sensazione di freddezza. Devo dire che, inaspettatamente, aver usato un meccanismo semplice e facilmente individuabile assieme alla piacevolezza armonica dei suoni delle chitarre hanno fatto sì che tante persone siano rimaste davvero a lungo ad ascoltare e ad osservare i ventilatori, delle volte anche 40 minuti sedute fuori o dentro al cubo: questo per me è un risultato enorme, a prescindere dal valore o meno in sè dell’opera d’arte, che per me a quel punto si trasforma al pari di in evento naturale che ci affascina. Si potrebbe parlare, in questo caso, dell’effetto “sharawadji” ossia di quando ci si trova di fronte ad un fenomeno regolato da un’apparente casualità da cui emerge un ordine magico: è un termine che viene usato nella musica contemporanea ma che deriva dal senso di inesplicabile bellezza che si prova nell’osservare i giardini orientali.
“Canale Audio” è un’installazione sonora realizzata per la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, in occasione della mostra “A Ballad of the Flooded Museum”, curata da Paola Nicolin nel 2010. L’installazione porta, all’interno del museo, il paesaggio sonoro acquatico di Venezia. Vorrei riflettere con te sulle caratteristiche sonore di Venezia, una città caratterizzata da un paesaggio sonoro hi-fi (per citare Murray Schafer) e che ha dato i natali a grandi musicisti, tra cui alcuni particolarmente interessati a come il suono abita lo spazio, come Andrea e Giovanni Gabrieli (cori battenti) e Luigi Nono.
Venezia durante il Rinascimento, ossia quando gli architetti ponevano una cura quasi mistica nella progettazione acustica degli ambienti, soprattutto di quelli sacri, è stata ampiamente costruita tenendo un orecchio teso al risultato che poteva ottenere lo spazio nei confronti del suono. Per esempio, durante quel periodo, sono state costruite molte chiese in cui sono presenti volte a botte unica, che raccolgono i suoni e li rimandano all’uditorio in maniera omogenea e amplificata. Pensiamo anche alle calli e ai campi, in cui è possibile sentire e discriminare perfettamente parole e suoni. Venezia è particolarmente emblematica anche perché non è stata ricostruita eccessivamente nei secoli e quindi rappresenta, anche da un punto di vista acustico, una città unica non solo per la presenza dell’acqua.
Personalmente ho molti aneddoti legati all’ascolto di suoni a Venezia. Uno prescinde dall’acqua: si tratta della Festa del Redentore, ascoltata non vicino al canale ma tra i vicoli. L’esplosione dei fuochi, sul canale, è un esperienza pirotecnica normale mentre all’interno dei vicoli si crea un riflesso sonico complesso e potente, perchè il suono rimbalza ovunque e viene amplificato: percorrere i vicoli con gli occhi chiusi, durante la Festa del Redentore, è un’esperienza acustica inedita, anzi inaudita. L’assenza di traffico e la città vuota, proprio perchè tutte le persone sono concentrate davanti al canale per osservare i fuochi d’artificio, rende il suono libero di viaggiare all’interno delle calli e di rimbalzare ovunque. Questa è stata sicuramente un’esperienza che mi ha segnato dal punto di vista dell’acustica a Venezia.
“Canale audio”, installazione realizzata in collaborazione con Isola&Norzi, invece, è stato un esperimento inaspettato dal punto di vista dei risultati. In questa installazione è stato usato un idrofono che mi sarei aspettato rivelasse il racconto di una Venezia molto caotica a livello subacqueo: invece si è rivelata una città sicuramente molto viva, perché le sorgenti che arrivavano all’idrofono erano molteplici ma al contempo delicata; il paesaggio sonoro variava a seconda della giornata ed alcuni suoni erano chiaramente discriminabili anche a lunga distanza.
Ricordo, infatti, che a due canali da lì, quindi non visibile e lontano da raggiungere a piedi, c’era un maestro d’ascia che riparava le barche: quando batteva il legno con lo scalpello o piallava, ascoltato sottacqua, sembrava di averlo lì vicino, mentre all’ascolto fuori dall’acqua risultava quasi impercettibile . Ingenuamente pensavo che il suono dei motori dei traghetti, sott’acqua, fosse simile ad un boato, invece era simile ad un brusio: le basse frequenze, tipiche dei motori, sono fragorose solo se si trasmettono per via aerea. Ricordo la bellezza dei suoni delle gondole: uno sciabordio dolce come il passaggio di un velo.
Un fenomeno che mi ha colpito molto era il momento in cui i pesci mangiavano: a una certa ora, intorno alle 5 o 6 del pomeriggio, il canale diventava frizzante e granuloso, quasi scoppiettante, a dire il vero non so se fossero le alghe ad ossigenarsi o i pesci a mangiare o entrambe le cose. Molto bello è il suono del vento tra le briccole e tra i cavi tesi delle barche: la vibrazione delle sartie si propagava attraverso le briccole e poi si trasmetteva sottacqua producendo una serie di sinfonie aliene.
Un’altra bella esperienza è stata ascoltare il pesce Go, che vive in laguna. Costruisce una tana sotto la sabbia e viene pescato quando il maschio è in amore. La particolarità è che chiama la femmina attraverso l’emissione di un battito sordo che si propaga attraverso il terreno. Insieme ad alcuni ricercatori del Dipartimento di Biologia Marina di Venezia abbiamo cercato di registrare il verso d’amore del pesce Go e ce l’abbiamo fatta!
Questo studio è stato molto interessante sicuramente dal punto di visto acustico ma non solo, perché ho potuto ascoltare racconti sul cambiamento in atto a Venezia a causa sia del Mose, che sta progressivamente cambiando gli ecosistemi della laguna, sia dell’inquinamento acustico subacqueo generato dal passaggio delle navi da crociera e dalla costante presenza di motori. L’altra faccia di Venezia, quella subacquea, ha fatto emergere tantissimi aspetti sconosciuti e affascinanti.
Hai realizzato musiche per spot pubblicitari: qual è l’approccio nei confronti di un brand, dal punto di vista sonoro?
L’approccio nei confronti di un marchio è difficile perché, nella maggior parte dei casi, le aziende non hanno la consapevolezza che il brand possa essere connotato anche sonoramente. Ovviamente ne sono molto più coscienti i marchi tecnologici.
Non è un caso che il mio lavoro sia nato nel periodo in cui lavoravo come psicologo ergonomo presso il TiLab di Telecom: molte aziende della telefonia si rivolgevano a noi perché venivano a cercare un’identità di tipo anche acustico, anche se non la definivano consapevolmente in questo modo. Infatti chiedevano soprattutto feedback sonori funzionali al ruolo che doveva avere un determinato processo, come ad esempio un’email inviata con successo, un sms fallito, etc.: a ciascuna di queste operazioni corrispondeva un suono che doveva dare una risposta sul successo o meno dell’operazione compiuta. Tuttavia, proprio per differenziarsi rispetto ad altri marchi simili, era necessario dare un carattere e “brandizzare” queste tipologie di suono: questo era il mio compito.
Pertanto, a parte i brand tecnologici che sono per loro natura dotati di un’identità sonora al punto che ormai noi riconosciamo i cellulari senza vederli ma solo ascoltandone il suono, tutti gli altri marchi non sono consapevoli che un’identità sonora possa renderli più accattivanti o veicolare meglio il loro mood di base. Si tratta di un lavoro molto difficile, soprattutto perché si scontra con i luoghi comuni che serpeggiano nei dipartimenti marketing di queste aziende: purtroppo, chi lavora nel marketing di una grossa azienda è sicuramente competente nel collocare egregiamente il marchio sul mercato, ma si limita a pochi aspetti che di solito non coinvolgono il suono.
Di solito, quando decidono di contattare un sound designer, gli si affidano e, quindi, occorre studiare a fondo il marchio, il mercato e il target e proporre una serie di soluzioni che siano un compromesso tra le esigenze loro e del consulente. Un paio di anni fa ho partecipato ad una gara sul cambio del logo sonoro di BMW, perché era ormai anacronistico e l’azienda se ne era resa conto: è raro trovarsi di fronte ad una realtà industriale che pensa che il proprio logo sonoro stia veicolando significati che non hanno più nulla a che vedere non solo con il proprio mercato di riferimento ma anche con la realtà contemporanea, in quanto rimandano ad un’idea di industria pesante da cui il mondo ormai cerca di uscire. Quindi, è stato molto interessante intraprendere una ricerca approfondita che coniugasse l’esigenza “ecologica” di questo brand con i valori di bellezza, potenza, sportività ed alta classe con cui la BMW si identifica.
Si tratta, comunque, di compromessi fatti di tante prove e test: soprattutto nel caso di aziende così grandi, non si può essere da soli ma occorre sempre testare i risultati prima di immetterli sul mercato. Quando lavoravo al TiLab, il team di cui facevo parte rifletteva sul compito da svolgere, veniva elaborato un prototipo e, in seguito, venivano organizzati focus group con campioni rilevanti e omogenei per sesso, età, etc., che permettevano di svolgere seriamente una ricerca statistica e psicologica sull’effetto di un determinato feedback acustico sull’utente finale.
Purtroppo, mi rendo conto che non sia molto diffusa la mentalità di approcciare il suono con tali risorse. Uno degli ambiti in cui, in questi anni, si investe in ricerca è quello sul futuro suono delle auto elettriche, sia perché è necessario per motivi di sicurezza, essendo i motori elettrici silenziosi, sia perché ciascuna casa automobilistica non vuole perdere l’occasione di essere immediatamente identificata dal suono del nuovo motore.
Mi si accappona un po’ la pelle al solo pensiero di migliaia di auto dotate di un suono personalizzato, anche perchè una delle caratteristiche più belle di un motore a scoppio è legato alla sua fisicità, perchè ad un certo numero di giri corrisponde una relativa velocità che il nostro orecchio e il nostro cervello sono abituati a riconoscere. Il motore elettrico appartiene ad un mondo davvero diverso: immagino una fase iniziale piena di incidenti (ma ovviamento spero che non succeda) e, a causa di questo, il nostro orecchio inizierà a diventare iper sensibile nel captare a distanza l’arrivo di un’auto elettrica. A parte gli scherzi, credo che le nostre orecchie riusciranno ad abituarsi e ad assuefarsi al suono dei nuovi motori in un po’ di anni.
Non ho visto le ultime ricerche in merito ma, in qualità di sound designer, mi domando perché, invece che sul motore, non si possa lavorare, ad esempio, sulla trasformazione dei pneumatici, il cui rumore sul selciato e un elemento che le nostre orecchie riescono a distinguere e decifrare in termini di distanza: soffermarsi sulla texture degli pneumatici e del selciato potrebbe dare risultati interessanti dal punto di vista acustico, anche perché si tratterebbe di un suono analogico e “naturale”, senza intasare il paesaggio sonoro con l’ennesima finzione digitale a cui, oramai, non prestiamo nemmeno la dovuta attenzione.
Secondo Michel Chion, la più importante relazione tra suono e immagine è quella del valore aggiunto, ossia il valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un’immagine, con estrema naturalezza. Invece, vorrei riflettere con te sulla “verità sonora” in ambito audiovisivo, perché spesso i rumori ambientali nei film sono verosimili e non veri: un suono, nella sua verosimiglianza, si carica di sfumature, timbri e intensità tali da sollecitare la sfera emotiva dell’ascoltatore proprio perché lo spettatore, nei confronti di un suono realistico, non è immediatamente in grado di confrontarlo con il suono reale, ma si affida al ricordo di quel tipo di suono, che viene ri-sintetizzato a partire da diversi dati che non sono solo acustici, ma influenzati anche dalla visione dello stesso film.
Questo è il mio lavoro e meno male che è necessaria la verosimiglianza e non la realtà! C’è molto da dire in merito a questo aspetto.
Inizio dicendo che nel momento in cui si crea il commento sonoro a una scena, automaticamente si opera una selezione di ciò che l’ascoltatore deve sentire. Questa scelta potrebbe essere paragonata alla figura retorica della sineddoche, in cui una parte vale per il tutto: si rappresenta l’universo di una precisa scena attraverso pochi elementi che non solo determineranno la resa della sincronizzazione ma, se la scena lo richiede, saranno in grado di veicolare dei significati a livello narrativo, simbolico e metaforico fino a livelli di lettura profonda. Tutto questo è permesso grazie alla proprietà che il suono ha di bagnare un’immagine in movimento con una certa atmosfera o emozione.
Mi piace molto un termine che Donald Norman attribuisce agli oggetti, cioè affordance: ogni oggetto ha una forma che suggerisce degli utilizzi, che non è detto siano propriamente quelli per cui esso è stato progettato. Lo stesso discorso può essere affrontato per il suono: ciascun suono ha delle affordance, ossia delle qualità intrinseche, che lo rendono appetibile per rappresentare qualcosa da cui potrebbe anche essere lontano nell’accostamento ad un’immagine. Spesso queste scelte sono molto più efficaci rispetto al suono reale dell’oggetto in sé: anche in questo consiste la bellezza del cinema e in questo risiede la fiction. Come dice Chion la resa è data da un gomitolo di sensazioni in cui suono ed immagine rimandano l’uno all’altra generando molteplici livelli di lettura. Lo stesso discorso vale, ad esempio, anche per la luce, l’ambientazione o per il modo con cui si gira la scena…fanno parte del medesimo “gomitolo di sensazioni”.
L’approccio che descrivi vale in ogni caso, ossia cinema, animazione o spot pubblicitario?
Sì, ma in particolare nel cinema e nell’animazione. Nel caso dell’animazione, in effetti, il fruitore si aspetta già che la scelta dei suoni non sia reale, perché sa che il suono non è in presa diretta. Nel cinema, invece, ci si aspetta la presa diretta o comunque che la scena a cui si assiste sia quanto più simile al mondo reale, ma in effetti ciò che viene presentato in un film è una iper-realtà in cui di una scena si mettono in evidenza, su uno sfondo, solo quei suoni che sono fondamentali alla narrazione o alla trasmissione della sensazione che si vuole veicolare. Ad esempio, soprattutto nel caso di film con una forte connotazione emotiva come i thriller o gli horror, già solo con una giusta sonorizzazione degli elementi di scena si riesce a creare la suspance senza bisogno di inserire musiche evocative.
Qualche anno fa ho partecipato ad un progetto di ricerca per il corso in “Ingegneria del Cinema” di Torino: un filmato di sei minuti, connotato da un’estetica amatoriale e realistica, nel senso che sembrava fosse stato girato con un telefono cellulare, è stato sottoposto alla visione da parte di due gruppi campione. La trama è questa: in una stanza c’è un gruppo di amici; ad un certo punto arriva una ragazza trafelata e racconta che per strada un tizio le è saltato addosso e l’ha fatta spaventare. In seguito si scopre che il tizio l’ha anche morsa; la finzione si scopre quando, in prossimità della fine del filmato, la ragazza inizia a mordere gli amici. Il video, nella versione reale e senza che l’audio fosse modificato, è stato mostrato ad un campione di 200 persone, omogenee per sesso, età e formazione.
Ho creato anche un’ altra versione del filmato in cui ho post-prodotto il commento sonoro, mostrandolo ad un ulteriore gruppo di 200 persone. L’editing del suono è stato realizzato in modo che il risultato finale sembrasse quello del video girato con il cellulare, anche se in effetti avevo corretto i suoni, in modo subliminale, con l’obiettivo di aumentare la tensione. L’ascolto avveniva in cuffia, perciò si potevano cogliere tutte le sfumaure. Per esempio, ho inserito un suono a frequenza molto bassa che cresceva lentamente per i 6 minuti, fino a rendere l’ascolto un po’ opprimente. Ho applicato lo stesso procedimento per le frequenze quasi al limite del percepibile, intorno ai 15000 Hz, in cui vi è un glissato che progressivamente aumentava di una nota, per tutto il corso dei 6 minuti. Ho esaltato anche altri aspetti, come quando la protagonista sbatte i piedi sotto le lenzuola, perchè inizia il suo delirio: il suono delle lenzuola è molto verosimile ma ho voluto amplificarlo rispetto a quello che una presa diretta del suono garantirebbe; e mille altri espedienti di questo tipo.
In seguito, a tutti i 400 soggetti, abbiamo presentato lo stesso questionario in cui, tra le varie domande, si chiedeva se, secondo loro, l’audio fosse stato post-prodotto: tutti pensavano che il suono fosse reale perché nessuno ha risposto affermativamente alla domanda. C’erano domande apparentemente inappropriate, come la richiesta di informazioni sul momento della giornata in cui era stato girato il filmato; nei fatti, la stanza era una mansarda e dall’abbaino, chiaramente, si vedeva che era un pomeriggio assolato: mentre tra coloro i quali avevano visto il filmato non post-prodotto, la percentuale di chi si era reso conto di questo particolare era elevata (il 30% degli intervistati ha risposto che fuori c’era il sole), tra quelli che avevano visto il video post-prodotto abbiamo notato molta confusione, perché alcuni hanno risposto che era notte o che pioveva, dimostrando che l’unica differenza tra i due filmati era il commento sonoro che era riuscito a modificare la percezione dell’atmosfera, veicolando sensazioni di claustrofobia e oscurità. Questo esperimento dimostra quanto il suono verosimile, e non vero, influenzi radicalmente la visione, anche quando è subliminale, ossia molto verosimile.
Vorrei che raccontassi la genesi di “Beauty“, il cui regista è Rino Stefano Tagliafierro, dal punto di vista della creazione della colonna sonora da te composta.
Ho iniziato a creare la colonna sonora vera e propria a video finito. Mi piaceva l’idea di confrontarmi con un filmato, la cui realizzazione è stata molto impegnativa, che contiene dipinti classici che vengono animati, ma al contempo non ha una narratività vera e propria, che scaturisce dalla sola messa in sequenza delle immagini secondo logiche di argomento. La sfida consisteva nel dover creare un commento musicale a quest’onda, creando un oggetto unico che suggerisse una sensazione di fissità ma anche di movimento.
Sono partito dal presupposto che trovavo kitsch affidarmi solo alla musica elettronica, ugualmente lo era la pura musica classica; pertanto ho cercato un compromesso tra questi due mondi, in grado di formare un universo di cui non si riusciva a identificare l’origine. Ho deciso di utilizzare tecniche di sintesi granulare, che hanno la capacità di esplorare il dna dei campioni di musica classica che avevo selezionato. In questo modo mi sono creato un impasto timbrico classico, associato alla potenza quasi subatomica dell’elettronica. Con questo materiale ho iniziato a comporre. La sintesi granulare permette di compiere, dal punto di vista estetico e concettuale, un’operazione molto simile a quella dei quadri in movimento: è possibile, infatti, selezionare un piccolo momento di un suono e di farlo vibrare con variazioni di vario genere. Ho lavorato sempre guardando il video, rendendomi subito conto se le onde, che stavo generando, potevano dialogare con quella fissità. Nell’ultima fase del lavoro, ovviamente, ho cercato la sincronizzazione con le immagini, per redere cinematografico il commento sonoro altrimenti il risultato finale sarebbe stato troppo statico: il suono è in perfetto contatto con l’immagine, tanto che a mio parere uno non funziona senza l’altra.